
Venti filorussi nell’ex repubblica sovietica
Golpe “invisibile” in Moldavia
Il 28 febbraio centinaia di manifestanti sono scesi in piazza a Chișinău per protestare contro la presidente Maia Sandu e il governo filo-occidentale di Dorin Recean. Bloccato a metà strada da un fronte compatto di poliziotti (di norma le manifestazioni si tengono vicino il parlamento e il palazzo presidenziale), il corteo si è fermato nella centralissima Bulevardul Ștefan cel Mare și Sfînt. Sul palchetto si sono alternati vari esponenti politici antigovernativi, come Marina Tauber, vicepresidente del movimento fondato dal controverso oligarca Ilan Shor (riparato all’estero dopo una pesante condanna in primo grado per uno scandalo finanziario) o Tatiana Bordeianu, vicepresidente di Pace, piccolo partito fuori dal Parlamento. Al centro delle rivendicazioni, la condizione economica del Paese: “Prendo una pensione mensile di 1700 lei (circa 85 euro)”, mi ha detto una signora che era lì per chiedere al governo di pagarle le carissime bollette per i mesi invernali.

La manifestazione – in cui sono state chieste più volte le dimissioni di Sandu e del governo – è terminata con qualche tensione ma senza incidenti e in breve il traffico è ripreso, tanto che io stesso me n’ero andato altrove. In serata, invece, sono iniziate a circolare le immagini di un gruppo dei manifestanti intenti ad assaltare la sede del governo moldavo. Bloccati dalla polizia, alcuni di loro si sarebbero diretti verso il municipio.
La notizia di un tentato golpe in Moldavia ha guadagnato velocemente spazio sui media online e sui programmi politici della sera, anche in Italia. La sensazione diffusa era di essere di fronte a un tentato Capitol Hill ma, nei giorni successivi, l’interesse è rapidamente scemato. Anche in Moldavia, l’impressione è che, se un tentato golpe c’è stato, non se ne sono accorti in tanti: la vita ha continuato a scorrere e nessuno dei miei interlocutori nei giorni successivi ha fatto riferimento a quell’evento in termini drammatici, anche se un esponente del partito di governo, Oazu Nantoi – nel corso di un’intervista con me – ha parlato di “guerra ibrida della Russia in Moldavia” e di “pseudopolitici con i soldi sporchi” che vogliono “creare il caos” per portare a elezioni anticipate.

La notizia di un possibile golpe filo-russo era stata peraltro anticipata nelle settimane precedenti dalla presidente Maia Sandu, che aveva dichiarato – senza però fornire particolari prove – di aver ricevuto l’informazione dal presidente ucraino Zelensky, confermata dai servizi segreti moldavi. Mosca, per quel che vale, aveva smentito tutto.La stessa guerra contro la propaganda filo-russa ha visto di recente degli episodi quantomeno controversi da parte del governo moldavo sul fronte della libertà di stampa, come la chiusura di sei televisioni accusate di fare propaganda per il Cremlino, legate all’oligarca Ilan Shor.
Della Moldavia non si è mai parlato granché: è un paese povero, piccolo (ha circa due milioni e mezzo di abitanti), senza un’identità particolarmente forte e incastrato tra Romania e Ucraina. Ha guadagnato però un improvviso interesse geopolitico dopo la guerra: la sua collocazione, storicamente divisa tra un’anima europeista-rumena e una russa (anche se dal 2009 i suoi governi sono filo-occidentali) è diventata infatti rilevante. Spalmata lungo il confine con l’Ucraina c’è poi la Transnistria, regione separatista storicamente filo-russa, in cui operano un migliaio di peacekeepers russi e dove è presente il più grande deposito di armi in Europa, a due passi dal confine ucraino. Per farla breve, se il Paese (che pure non dispone di un grande esercito e in cui i russi possono arrivare solo per via aerea) domani si spostasse improvvisamente sull’asse di Mosca, l’Ucraina si troverebbe un nuovo fronte sud-occidentale e il rischio di un corridoio che, passando per Odessa, Mykolayiv, Kherson e la Crimea (insomma la parte meridionale sul Mar Nero), arrivi in Russia. Uno scenario (ad oggi, sia chiaro, del tutto ipotetico) da scongiurare ad ogni costo e che ha reso la Moldavia centrale. Questa inedita attenzione occidentale si è espressa ad esempio nella concessione, a giugno, dello status di paese candidato all’Unione Europea assieme all’Ucraina e nel progetto di un’enorme ambasciata statunitense a Chișinău, segnale della volontà di Washington di costruire una rete di relazioni e informatori stabile e ampia sul territorio moldavo.

Se un tentato golpe c’è stato, l’indiziato numero uno non può quindi che essere Mosca, con un chiaro movente: destabilizzare un altro paese dell’ex Urss scivolato “pericolosamente” verso Bruxelles e Washington, approfittando di una situazione economica precaria, sintetizzata dall’aumento delle bollette. Se a ciò si aggiungono le voci che i manifestanti erano truppe “cammellate”, caricate per pochi spicci su dei bus fuori Chișinău e al soldo di un leader abbastanza controverso come Ilan Shor, il quadro è fatto.
Quello che però molti media hanno mancato di sottolineare è che la situazione economica della Moldavia è davvero complicata: detto delle pensioni per molti irrisorie e del caro-bollette, c’è anche qui il problema dell’inflazione che sta erodendo il potere d’acquisto. Problemi che ci sono ovunque, è vero, ma qui incidono su un equilibrio già precario, sommandosi anche a questioni ataviche, come l’emigrazione spaventosa e la mancanza di lavoro. “Cosa fa un moldavo quando finisce i soldi? Cambia 100 euro”, si dice da queste parti per indicare come molta dell’economia si regga su un welfare “umano”, fatto di rimesse dall’estero o di piccoli risparmi messi da parte nei periodi di lavoro fuori dal Paese. Il costo della guerra è quindi per molti insostenibile e la Russia – dopo aver dato origine al conflitto nella vicina Ucraina – può presentarsi (paradosso dei paradossi) come la soluzione.
In Moldavia è inoltre in corso un processo di occidentalizzazione a tappe, che emerge per esempio con la questione linguistica: qualche giorno fa, il parlamento moldavo ha approvato una legge che definisce la lingua nazionale “rumena”. La norma è passata – tra le proteste dell’opposizione – e risolve un contenzioso giuridico: nella Costituzione infatti la lingua del Paese è definita “moldava”, mentre nella dichiarazione di indipendenza si parla di lingua “rumena”. La Corte Costituzionale ha stabilito che tra le due carte prevale la seconda. Per noi potrebbe apparire una questione di lana caprina (in fondo, la lingua rimane quella), ma per i russofoni – presenti soprattutto tra le vecchie generazioni cresciute nell’Urss e in alcune aree, non solo in Transnistria – ogni riferimento alla Romania puzza di riunificazione (un progetto mai compiuto di annessione a Bucarest, inviso soprattutto a chi guarda a Mosca) e poi manca una legge a tutela delle lingue minoritarie, che nel caso del russo minoritarie non sono.
Questo processo è stato peraltro portato avanti dopo le elezioni del 2021 dal Partito di azione e solidarietà (Pas) della presidente filo-occidentale Maia Sandu. Nato su posizioni barricadere rispetto al controverso oligarca Vlad Plahotniuc, Pas si è trovato a passare dall’opposizione alla maggioranza, con tutti i problemi del caso, sintetizzati dai cinque rimpasti di governo e nel recente cambio tra la premier uscente, Natalia Gavrilita, e Dorin Recean.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina (per molti inaspettata fino all’ultimo), ogni valutazione sul futuro dei paesi dell’ex Urss deve essere fatta con mille riserve. L’ipotesi di un possibile golpe in Moldavia – sempre se non sia già stato tentato – non è quindi da sottovalutare, ma l’impressione è che al momento vi sia un’eterogenesi di fini per alzare l’attenzione sul Paese: da parte di Kiev, perché la paura di allargare l’influenza russa a un altro stato dell’orbita europea contribuirebbe a tenere alta la guardia sul conflitto. Da parte del governo di Chișinău, in difficoltà sul fronte interno, per spostare l’attenzione all’esterno e attirare magari maggiori aiuti occidentali.