Intervista all’alto rappresentante Ue in Bosnia, Christian Schmidt
Balcani, braci d’Europa
Balcani, braci d’Europa, dove niente è lontano, ma tutto è indecifrabile, finché non è troppo tardi. “Non perdiamoci nei dettagli, tenere i Balcani occidentali nel percorso dell’integrazione europea è fondamentale: se non lo facciamo, il risultato sarà disastroso”. Schietto, lo ricorda spesso a tutti quelli che incontra Christian Schmidt, alto rappresentante dell’Unione Europea per la Bosnia ed Erzegovina. Il supervisore degli accordi di Dayton che misero fine alla guerra nel 1995 non edulcora, non deroga, né devia assunzioni di responsabilità. Mite e ferreo, il “mister Wolf” di Sarajevo è stato spedito a “risolvere problemi” nella polveriera d’Europa quando, nel 2021, il suo predecessore, l’austriaco Valentin Inzko, si è dimesso dall’incarico.
Della nomina dell’ex ministro tedesco della Csu (Schmidt ha guidato il dicastero dell’agricoltura dal 2014 al 2018 nel terzo mandato della cancelliera più famosa della storia, Angela Merkel), non fu contento il Cremlino, che contro di lui si oppose subito e apertamente. Con un passato trascorso alla segreteria della Difesa del Bundestag, è nato in una famiglia di panettieri in Baviera nel 1957, quando le Germanie erano due. Arriva da uno Stato che col Novecento e le sue divisioni, la sua storia e il sangue altrui, ha saputo fare i conti. A Sarajevo invece non sono stati ancora chiusi: solo qualche settimana fa sono stati condannati quattro ex militari serbo-bosniaci per crimini compiuti contro i civili trent’anni fa.
In Bosnia la pace è arrivata, ma non del tutto, e non lo è – non completamente- nemmeno la giustizia. Perché? “Serve una riflessione scomoda”, dice Schmidt.
Quale?
In Germania la discussione sull’assunzione delle colpe è durata molti anni, ma nella società tedesca era molto chiaro chi fosse il responsabile, non si poteva dire: “no, è stato un altro”. Altri Paesi, come il Sud Africa, hanno creato le Truth commission, commissioni per la verità e la riconciliazione, per rispondere a una domanda precisa: cosa è successo? L’obiettivo che avevano era: come ne veniamo fuori insieme, per non farlo accadere mai più? Ecco, quel “mai più” è la chiave che oggi manca a volte in Bosnia, il coraggio di guardare insieme all’indietro, nel passato. Invece dei “mai più”, spesso c’è un elenco di “tu hai fatto questo”, “voi avete fatto quello”. A una fondazione storica comune, per il bene del futuro del Paese, io voglio contribuire. Ma bisogna essere preparati ad un doloroso processo di coscienza, quello che la generazione attuale non ha ancora compiuto. Non hanno accettato la missione. Però è un errore parlare di tutto in bianco e nero, dei miglioramenti esistono.
Dalla guerra di ieri a quella di oggi. Per il conflitto scatenato da Mosca contro Kiev, l’Unione europea sta rivolgendo il suo “occhio cieco” ai Balcani, finiti in un cono d’ombra? Il blocco occidentale sta dimenticando la Bosnia?
No. Partiamo da una buona notizia: a dicembre scorso è arrivata la decisione del Consiglio europeo per la concessione dello status di Paese candidato a Sarajevo. Dimostra reliability, l’affidabilità della comunità interazionale, e concern, interesse verso la stabilità della BiH. Ma abbiamo bisogno di più commitment, impegno: dobbiamo rassicurare tutto il popolo bosniaco, in una regione geograficamente prossima al conflitto.
Teme che la guerra possa allargarsi fino a lì?
Non abbiamo indicazioni, in questo momento, di piani da parte russa per un allargamento della crisi nei Balcani occidentali, né evidenze che vogliano includerli nella cornice della guerra.
A inizio febbraio Igor Kalabukhov, ambasciatore russo a Sarajevo, ha scritto: “né Russia, né Usa, né Ue dovrebbero immischiarsi negli affari interni della Bosnia”. Sarajevo è libera di unirsi all’Unione, ma Mosca “ha diritto a difendersi”. Che messaggio c’è in filigrana?
Buona domanda, ma dovrebbe chiederlo a lui. Dove finisce il suolo e la zona di sicurezza russa? La Bosnia decide da sola, non c’è neppure un millimetro da concedere.
A proposito di Russia: Milorad Dodik, presidente della Repubblica serba di Bosnia già sanzionato dall’Ue, ha appena medagliato Putin per “l’amore patriottico”. Il 6 febbraio scorso, quando lei ha celebrato, insieme ai partenti delle 68 vittime, il 29esimo anniversario della strage del mercato Markale, al centro di Sarajevo, Dodik l’ha attaccata per l’ennesima volta su Twitter: “Un falso Alto rappresentante ad una commemorazione di un crimine che è stato falsamente riportato”.
Politicamente, si tratta di comportamenti inaccettabili. Chi nega verità storiche ha strette relazioni con l’aggressore in Ucraina, ma, nelle democrazie, la risposta a questo tipo di azioni arriva in maniera democratica, alle urne. Dodik dovrebbe sapere che se entra nel club europeo, sarà ritenuto politicamente responsabile, e questo lo sottolineo in maniera neutrale. Il versante da cui arrivano più sfide in Bosnia è certamente quello serbo, ma bisogna ricordare che la via delle riforme delle strutture esiste, che la separazione non abita tanto tra le persone, quanto nella sfera politica. Esiste lo stato di diritto: propaganda, nepotismo e corruzione devono smettere di dominare il Paese.
Oltre a Dodik e le sue minacce di secessione militare e fiscale, altre entità della società bosniaca rendono il suo lavoro più difficile?
Molte. E molti partiti propongono in primis la loro impronta nazionalista, ma esistono raggruppamenti riformisti che non si definiscono rappresentanti di un’etnia o di un’altra.
Oltre all’Ucraina, c’è anche un altro epicentro di crisi nell’area: tra Kosovo e Serbia, Pristina e Mitrovica, sono tornate tensioni mai sedate. Inoltre, nell’emisfero serbo, imercenari russi della Wagner, attivi contro Kiev, sono stati avvisati a Belgrado, dove qualcuno ha denunciato campagne di arruolamento. La loro influenza arriverà fino alla Repubblica Srbska?
Di una presenza dei Wagner nell’area non abbiamo prove, ma se arriva un solo mercenario a reclutare in Bosnia, varcherà un’inaccettabile linea rossa. In precedenza ho già dichiarato che se dovesse accadere seguirebbe un’azione immediata della comunità internazionale. Abbiamo imparato da un po’ che nei Balcani una crisi non arriva mai da sola.
Le ultime proteste dei bosniaci sono state registrate alle urne: il complesso sistema elettorale tripartito è considerato uno dei più complessi al mondo.
Ammetto che ci sono delle carenze e difficoltà nel colmarle per la trasformazione degli accordi di Dayton in accordi non discriminatori. Per buone ragioni, si manteneva la struttura composta dalle tre popolazioni costituenti, ma ad oggi non è possibile pensare che non si possa diventare presidente se non sei serbo, croato o bosniaco. È già stato stabilito da sentenze della Cedu che è necessaria l’inclusione, guardare all’individuo, non all’appartenenza etnica. Le mie decisioni – che non hanno conseguenze sulla vita statale, ma su quella federativa, e ricordo che tra i miei compiti non rientra cambiare gli accordi di Dayton – dovranno essere ragionevoli, per privilegiare la funzionalità dell’apparato, evitando discriminazioni. Ma un momentum di cambiamento è sicuramente necessario per l’integrazione nell’Ue.
Cosa intralcia la strada verso Bruxelles?
Se croati, serbi, bosniaci avranno tutti un ricordo diverso del passato sarà un nostro fallimento politico. C’è una problematica che mi affligge più di altre: non esiste un sistema educativo completamente integrato, ogni alunno delle scuole bosniache non studia ancora la stessa versione della storia e geografia. Questo inficia lo sviluppo omogeneo del Paese. Ma se si leggono i sondaggi, emergono le preoccupazioni dei cittadini, che non sono quelle legate alle differenze etniche, ma alle esigenze legate al lavoro, alla stabilità economica. Da almeno 10 anni i giovani, stanchi di corruzione e dibattiti etnici, emigrano e svuotano il Paese. Eppure, in questa situazione, io continuo ad avere fiducia.
In cosa?