Il Paese europeo che non vuol sentire parlare di Europa

Il Paese europeo che non vuol sentire parlare di Europa

Da Sarajevo – Il benvenuto di Sarajevo ai suoi ospiti è quello delle città che promettono storie e leggende da raccontare.Il suo skyline contraddice ogni aspettativa o categoria geo-culturale, così dalle montagne la vista si sviluppa tra grattacieli nuovi, palazzine degradate, campanili, minareti e sinagoghe. Lentamente la visuale si trasforma da scorcio in panorama multiforme. Da qui l’abitato sembra posato dolcemente nella valle tagliata in due dal fiume Miljacka, mentre a proteggerla ci pensano i massicci di duemila metri che la circondano. Da sempre Sarajevo è accerchiata da montagne e da rivendicazioni identitarie. Furono proprio quelle riaffermazioni che negli anni novanta, all’indomani della dissoluzione della Repubblica Federale di Jugoslavia, esplosero tra le componenti serbe, croate e bosniache presenti. Da allora il Paese non è stato più lo stesso e anche la Gerusalemme dei Balcani ha perso quell’aura di stazione di posta delle culture del mondo.

«Ormai Sarajevo non è più quel luogo multietnico in cui coesistono pacificamente religioni ed etnie, che si rispettano e non oltrepassano confini culturali. Oggi si vive un grande disorientamento». È Senadin Musabegovic, poeta e professore universitario, che per primo mi mostra il nuovo volto della città. Parla italiano e ciò rende più semplice lo sviluppo di una discussione sui risvolti politici conseguenti al conflitto che ventidue anni fa lui stesso ha combattuto. «La situazione oggi è ancora segnata dal conflitto, dalle divisioni. È la stessa guerra di vent’anni fa ma non si vede. Certo, non ci sono cecchini, fucili o granate». Gli autografi degli autori della guerra, però, sono ancora lì e sembrano indelebili. I palazzi crivellati di colpi, le case sventrate e le «rose di Sarajevo» (segni di granate impressi nel cemento con resina rossa) sono immagini iconografiche che riportano a un passato ancora troppo vicino.

E, soprattutto, scolpito nella memoria della comunità locale, dove tutti vogliono parlare della propria esperienza. Come Kerim, che incontriamo nel quartiere popolare di Grbavica, una delle aree cittadine che fanno venire un nodo in gola soltanto a guardarle. Kerim ha solo vent’anni ma parla con grande competenza e sicurezza di una guerra che non ha mai visto. Suo padre combatté qui quando aveva la sua stessa età e sono molte le storie che gli ha raccontato. «Ancora oggi molte persone hanno conseguenze, come traumi, paure, attacchi di panico. Ogni volta che sentono rumori hanno dei flashback». «Sei giovane ma conosci molte cose di questa guerra», dico sorpreso al ragazzo portatore di memoria storica. «Sì, perché tutti ancora ne parlano. E poi c’è ancora molto odio tra bosniaci e serbi, specialmente tra i più anziani». Grbavica è un viaggio nel tempo, dove i caricatori dei mitra sembrano essersi svuotati soltanto pochi mesi fa. I balconi dei palazzi sono gruviere e su molti edifici targhe d’ottone mostrano i nomi delle persone uccise.

Quando furono deposte le armi, le morti furono oltre 12mila e ridussero la popolazione del 25% anche a causa delle migrazioni; quei corpi sono seppelliti nei troppi cimiteri presenti in città, in cui distese di lapidi bianche svettano sulle colline. Le lastre sono tutte accomunate da due elementi: il colore bianco e le date di morte: 1992, 1993, 1994. Oggi la capitale bosniaca appare povera ma dignitosa. Vessata da dolori, spaesamenti e da una singolare segregazione politica nazionale, la città prova a reagire mostrando ai visitatori la sua splendida «old town» e un centro capace di fondere gli aromi orientali in un contesto filoeuropeo, in cui le estremità a punta delle moschee e le torri delle chiese svettano affiancate. In centro, seduti davanti a bassi tavolini che sorreggono i tipici bicchieri di «chai» asiatico, i più anziani trascorrono i loro pomeriggi a ricordare amici e parenti morti, a richiamare alla memoria la difesa dei quartieri, a scambiarsi opinioni identitarie. I piccoli bar della capitale hanno tutti lo stile e l’architettura tipici degli anni ottanta, quasi a testimonianza dell’ultima epoca storica di pace prima dell’inferno. Furono gli anni delle olimpiadi invernali, le prime in un Paese comunista.

Nel 1984 furono molti i locali aperti per accogliere turisti e atleti e tutti ricordano il grande fermento di quei giorni. La quiete prima della tempesta. Alcuni anni dopo, le bombe spazzarono via quasi tutte le tracce dei giochi olimpici. Per tentare una scossa economica auspicata da vent’anni, le autorità hanno tentato la carta dell’integrazione nell’Unione Europea. Proprio così, dal 2015 la Bosnia-Erzegovina è candidata a far parte dei Paesi dell’ormai tanto contestata organizzazione sovranazionale. Eppure a Sarajevo il sentimento antieuropeista è preponderante, e non soltanto nelle dichiarazioni dei bosniaci, che non hanno mai perdonato il fatto che l’Europa sia rimasta a guardare durante l’assedio più lungo della storia bellica moderna. È quasi un odio quello provato nei confronti l’Europa ed è manifestato plasticamente da cartelloni, gigantografie e manifesti sparsi in ogni angolo della città. «1992-1995: non è stato abbastanza?», recita uno striscione esposto nei pressi di un locale. Da un terrazzo è stata invece fissata una singolare bandiera sulla quale si legge «EUtanasia». E forse sarà davvero impossibile far parte di un’entità esterna percepita con astio, senza aver prima rimarginato le ferite aperte di una storia drammatica. «L’Europa ha già fallito una volta nel 1995, non vogliamo avere a che fare di nuovo con la sua incapacità»: è questa la frase più pronunciata dagli orgogliosi abitanti di Sarajevo.