Albania contesa
La spina nel fianco di Erdogan

L’Albania contesa tra Usa e Turchia

“Siamo tre milioni di cugini, qui sappiamo tutto di tutti”. È come un mantra collettivo ascoltato spesso durante il viaggio in Albania. Eppure anche nelle migliori famiglie c’è sempre qualcosa che conviene non sapere o non dire, almeno ad alta voce. Così nel Paese delle aquile si dice senza dirlo. Dietro il velo dei formalismi è in corso uno scontro sotterraneo. Uno scontro che data 15 luglio 2016, la notte di un venerdì qualunque in cui è iniziata la metamorfosi della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. La notte di un colpo di Stato fallito che ha messo la parola fine alla democrazia turca e ha aperto un nuovo capitolo nella storia del Paese. Un capitolo fatto di persecuzioni, processi sommari, incarcerazioni arbitrarie. Nel mirino Feto, la rete che fa capo al predicatore turco Fetullah Gulen e i suoi reali o presunti affiliati. È la caccia all’uomo che ossessiona il Raìs. Una caccia che travalica i confini della Turchia e che travolge alleanze consolidate nei decenni. Nessuno viene risparmiato. Né gli Stati Uniti dove risiede il sospettato numero uno del golpe, né l’Europa, rea di aver voltato le spalle all’alleato turco in quella notte. E poi i Balcani, la regione in cui Erdogan ha investito soldi e minareti con l’illusione di far resuscitare l’impero ottomano.

Albania, Tirana 2019. Sede della grande setta Bektashi

Sorvegliato speciale in questo angolo d’Europa è l’Albania, considerata il “centro delle attività guleniste nei Balcani”, come l’ha definita il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu. E non è un caso. Sin dalla caduta del regime comunista Gulen, allora sostenuto dal Raìs, incominciò a occupare i gangli dello Stato albanese attraverso le sue organizzazioni. Un radicamento profondo soprattutto lì dove è stata forgiata l’élite albanese attuale e futura: scuole, università, centri culturali tra i più prestigiosi del Paese. Era il nuovo corso delle relazioni tra Ankara e Tirana. L’Albania era stata terra di conquista dell’Impero ottomano. Lo fu per cinque secoli, nonostante i tentativi di resistenza dei principi albanesi, primo fra tutti l’eroe nazionale, Skanderbeg. Furono gli anni della conversione all’islam dell’Albania che tuttora rimane uno dei pochi Paesi europei a maggioranza musulmana.

Albania, Tirana 2019. Tombe in una piccola moschea

Prima che l’impero ottomano crollasse, la dominazione turca in Albania era già cessata. A non cessare però era la diffidenza tra i due Paesi. Una diffidenza che sarebbe stata superata solo con la fine del comunismo e le guerre nei Balcani quando Ankara si adoperò perché il conflitto non si estendesse anche qui. L’invasore divenne alleato, l’islam il punto di congiunzione.

Mezzogiorno caldo di primavera. Al parco Namazgah è tutto un brulicare di gente. Si passeggia indifferenti e senza sosta davanti alla moschea della discordia. Fino a poco tempo fa i fedeli musulmani avevano preso l’abitudine a passare intere notti qui. Chiedevano che fosse costruita una moschea, quella promessa nel 2010 dall’allora sindaco di Tirana Edi Rama e ancor prima, negli anni Novanta, dall’ex premier albanese Sali Berisha.

Albania, Tirana 2019. Donne con Jijab nel centro della città

Il comunismo aveva trasformato il Paese delle aquile nell’unico Stato ateo al mondo. Moschee, cattedrali, chiese ortodosse furono distrutte, abbandonate, espropriate, riconvertite in musei. Poi vennero gli anni della ricostruzione dei luoghi di culto. Per tutte le religioni, tranne che per quella islamica. Una maggioranza discriminata, secondo l’intellettuale albanese Fatos Lubonja, perché seguace di una religione considerata tuttora come “la religione degli invasori”. Ci penserà Erdogan, anni dopo, a risolvere il paradosso. Con un investimento di 30 milioni di euro il Raìs turco ha contribuito alla costruzione della Grande moschea di Tirana. Non la prima né l’ultima, ma di certo la più monumentale dei Balcani.

Albania, Tirana 2019. Bandiera albanese e moschea costruita con risorse turche

“Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”, recitava Erdogan nel 1997 quando citando i versi di Ziya Gokalp venne condannato a dieci mesi di prigione per incitamento all’odio religioso. Quei versi però rappresentavano molto di più. Era un vero e proprio manifesto politico, quello di Erdogan. Negli ultimi anni la Turchia ha intensificato il suo sostegno alle comunità islamiche nel mondo, Albania inclusa. Lo ha fatto tramite la sua agenzia umanitaria governativa (Tika) e il potente ministero degli affari religiosi (Diyanet), due istituzioni che giocano un ruolo chiave nel restauro di strutture culturali di epoca ottomana e nel finanziamento di moschee, associazioni religiose e programmi di mobilità giovanile per studiare in Medio Oriente.

Albania, Tirana 2019. Ritratto del fondatore nella sede della setta Bektashi

La strada che collega Ankara a Tirana non è solo lastricata di minareti, ma anche di investimenti e scambi commerciali. Ammontano a più di 2 miliardi di euro gli investimenti effettuati l’anno scorso in Albania da parte di società turche quali Kurum, Alb telecom, Eagle Mobile e Bkt, il principale istituto di credito nel Paese, controllato dal gruppo turco Kalik. Tra gli investimenti futuri invece vi è la costruzione dell’aeroporto di Valona, un totale di 90 milioni di euro stanziati dalle stesse società che hanno contribuito alla realizzazione dell’aeroporto di Istanbul. A questo progetto si ricollega anche la nascita di Air Albania, la prima compagnia aerea di bandiera, grazie a un massiccio investimento della Turkish Airlines che ne detiene il 49% della proprietà.

Albania, Tirana 2019. Piazza Skandenberg

Dall’entrata in vigore nel 2008 dell’accordo di libero scambio, Albania e Turchia hanno intensificato poi gli scambi commerciali. Lo scorso anno il volume del commercio tra i due Paesi è stato pari a poco meno di 400 milioni di euro, secondo quanto riferito dal ministro degli esteri turco Cavusoglu. Un dato importante che fa della Turchia un partner fondamentale per la crescita economica dell’Albania. Eppure l’idillio tra Tirana e Ankara rischia ora di essere spezzato. Si dice senza dirlo, ma la spina nel fianco è sempre lui, Fetullah Gulen. Non c’è ancora stato il tentato golpe quando Erdogan per la prima volta chiede la chiusura delle scuole albanesi legate al movimento gulenista e frequentate, secondo le autorità turche, da circa 6500 studenti. È maggio 2015. Allora la risposta arriva direttamente per bocca del presidente albanese Bujar Nishani. “Le scuole” – dichiara il capo di Stato – “non rappresentano una minaccia né per l’Albania né per la Turchia”. E per rendere più incisivo il suo messaggio si reca in visita il giorno dopo al Turgut Özal College di Tirana, una delle scuole che fanno riferimento all’organizzazione gulenista.

Albania, Tirana 2019. La piramide, luogo di svago di molti giovani

All’indomani del colpo di Stato la situazione inizia a precipitare. Ankara chiede più volte al ministero dell’Interno albanese una verifica sui proventi e sulle attività di scuole, ong, fondazioni, centri culturali e ospedali considerati appartenenti all’organizzazione gulenista. Da Tirana a Scutari a Kavaja a Elbasan e Berat. La rete gulenista si estende dappertutto in Albania e dappertutto occorre verificare, indagare, controllare. Tirana però resiste e accusa: le pressioni turche sono un’ingerenza negli affari interni dello Stato.

Albania, Tirana. Bujar Spahiu, gulenista Gran Mufti d’Albania

Marzo 2019. Lo scontro da sotterraneo diviene conclamato e arriva lì, nel cuore della comunità islamica d’Albania, l’organizzazione musulmana nel Paese. Arriva nei giorni dell’elezione del Gran Muftì d’Albania. A ricoprire la carica è stato precedentemente Skender Brucaj, accusato dai media turchi di essere un gulenista. Lo stesso Brucaj si ritira improvvisamente dalla corsa per il secondo mandato a pochi giorni dal voto. Dietro la sua decisione, ancora Erdogan che, si dice, minaccia di non essere all’inaugurazione, prevista per quest’anno, della Grande moschea di Tirana. Ma non basta. A essere eletto è un altro gulenista, Bujar Spahiu, muftì di Elbasan.