Albania, una crisi che mette a rischio la democrazia
Nel Paese delle aquile è in corso una delle più profonde crisi politiche e sociali che si ricordi. I nervi sono tesi nelle piazze di tutta l’Albania, dove migliaia di manifestanti hanno continuato a riversarsi in opposizione al governo socialista di Edi Rama guidati dal leader della formazione di centrodestra del Partito Democratico, Lulzim Basha.
Un Paese non nuovo a manifestazioni e scontri, spesso protagonista di lotte interne ed episodi di corruzione e scandali legali che hanno portato l’Albania a sfiorare una guerra civile nella prima metà degli anni ’90. Una tensione politica che ebbe come effetto una crisi economica che fece perdere migliaia di risparmi ai cittadini albanesi, e che ha portato, più recentemente, alle violente manifestazioni del 2011 contro il governo che hanno registrato quattro morti. Un Paese che negli ultimi mesi ci siamo abituati a vedere più volte negli schermi televisivi e nelle pagine dei giornali, con il premier Rama che alzava le mani al grido di “Non sta accadendo nulla”, mentre i più scoprivano un volto inedito del Paese. Episodio clou è stata la manifestazione dell’8 giugno, a tre settimane dalle elezioni decisive del 30, quando il crescendo di violenze e tensioni ha portato il presidente della Repubblica Ilir Meta a rilasciare un comunicato dove annunciava il rinvio delle elezioni previste per la fine del mese.
La questione Europa
Sul destino dell’Albania di aderire all’Unione europea pende ancora il giudizio della Commissione, costretta a rinviare l’ultima parola proprio per via dei recenti scontri. Una decisione che doveva essere presa nelle prime settimane di giugno e ora rinviata ad ottobre, cosa che ha innervosito ancora di più gli animi di un popolo desideroso di restituire un’immagine positiva – nonché migliore – alla comunità internazionale. Viene naturale chiedersi quindi chi fossero questi manifestanti scesi in piazza e quali fossero le loro volontà. Ma le risposte faticano ad arrivare: “Qui hanno paura, non ci vanno leggeri. Nessuno vuole problemi, è un attimo ad essere tagliati fuori. In bocca al lupo”. Una voce lontana e anonima prova a sciogliere qualche dubbio: “C’è un’isteria di fondo diffusa. Si respira un’aria abbastanza carica. Un avvocato che conosco mi ha chiamato dicendomi che se ne va fuori città per precauzione il 30. Mi ha detto che chiudono la città, hanno diffuso un’ordinanza per tutti i pubblici ministeri che devono restare a disposizione 24 ore su 24. Mi ha detto che non possono spegnere i telefoni…”
Sinistri boicottaggi
Il problema delle opposizioni è sempre stato il premier Edi Rama, accusato di essere a capo di un governo illegittimo e corrotto. Il loro è stato, fin dal principio, un tentativo di boicottare le elezioni, che ha visto i due mandanti – Basha da una parte, e Monica Kryemadhi dall’altra – che, proprio per le votazioni, hanno ritirato numerosi candidati dalle liste senza presentare figure per l’opposizione. Un modo per lasciare Rama da solo nella corsa elettorale, consegnando la vittoria nelle mani del Partito socialista.
Al tentativo, inutile, di rinviare le elezioni, Rama aveva risposto bollando l’atteggiamento dell’opposizione e l’iniziativa del presidente Meta come “comportamenti di un gruppo disperato, costretto a perdere disperatamente”. Parole risuonate con forza all’interno delle stanze del governo, che ha poi riposto le armi e lasciato proseguire la campagna elettorale fino al voto. Chiaro fallimento e mossa autolesionista l’ultima carta dell’opposizione, autrice però di una strategia più sottile e difficile da portare alla luce e che è riuscita – almeno per il momento – a conquistare un’importante vittoria: le manifestazioni di piazza.
Il capitolo violento
La situazione è diventata nel tempo incandescente. La destra più radicale, lontana dalle idee europeiste di Rama, è scesa in strada con manifestazioni controllate, giostrate proprio da un’opposizione che “stipendiava” le prime file con delle vere e proprie buste paga. Un’opposizione impossibilitata a rovesciare il governo per via parlamentare e che si è appoggiata molto spesso alla violenza, tra assalti al parlamento e scontri con la polizia. Gente spesso presa da cittadine vicine, paesi periferici, che riceveva una somma di denaro di circa mille leke, pari a 8,5 euro italiani, per scendere in piazza e spargere il panico lanciando petardi e molotov insieme ai veri manifestanti di destra, quelli traditi durante il periodo comunista.
“Strutture di un partito che è il più grande dell’opposizione, stato otto anni al governo e che ha avuto molto potere. Un potere solido, formato da persone che non sono solo attiviste, ma che lavorano proprio per far crescere la causa, e che ora la portano avanti insieme all’opposizione”, mi dice Ervis Mance, imprenditore albanese che lavora con l’Italia. “Possono essere persone che lavorano per il Partito Democratico come segretari, amministratori, dirigenti… In più ci sono le ‘falanghe senza cedolino’”. Ecco chi è che tirava le file degli scontri, quelli che hanno impaurito l’Europa ricacciandola indietro e mettendola sul chi va là.
Un problema che sta alla base
La corruzione nella politica dei Balcani è ben nota, quello che non è noto sono le fonti di finanziamento dei partiti. Denaro usato anche per pagare le recenti manifestazioni senza che trapelassero dichiarazioni sulla sua origine e senza che si possa comprendere dove e in che modo questi soldi vengono poi distribuiti. E in Albania nessuno vuole essere coinvolto. D’altronde il problema corruzione è ben evidente a tutti Ma è anche chiaro che data la povertà e l’elevato tasso di disoccupazione, non sono pochi quelli che accettano di essere pagati per partecipare alle proteste. Nella realtà dei fatti il più della popolazione non ha aderito a questi scontri. Accompagnati da Ervis, abbiamo visitato insieme diversi seggi, in uno dei quali è avvenuto anche un incontro con il ministro delle Finanze e dell’Economia, Anila Denaj. Una solida stretta di mano e una presentazione: “Visto, qua è tutto tranquillo. Tutto calmo. Molti sono al mare, nessun allarme per scontri o manifestazioni, oggi non succederà nulla”. Ma la domanda successiva dimostrava tensione: “Ma perché, cosa dicono i giornali italiani?”
Possiamo veramente parlare di crisi o di faide politiche?
Una delle clausole fondamentali per l’adesione all’Unione europea è una valida riforma del potere giudiziario. Una riforma che all’Albania è sempre mancata e che è stato cavallo di battaglia del Partito Socialista di Rama. Quello albanese è uno dei “sistemi giudiziari più corrotti ed inefficaci in Europa”, come riportato nel 2014 dal capo di Euralius Albania, Joaquin Urias, ovvero il coordinatore del progetto per il consolidamento del sistema giudiziario albanese avviato nel 2018. Ma quello che c’è in Albania è una vera e propria faida politica che va avanti da anni. La destra vuole tornare al potere a tutti i costi e il governo Rama che non vuole ripetere quanto successo nel 2017, quando Rama stesso fu accusato di corruzione – fondata, ma di cui non si hanno prove o intercettazioni, e che vide Basha non riconoscere valide, inizialmente, le elezioni.
Le opposizioni, per via delle riforme proposte dal governo e in linea con l’Europa, si sono opposte temendo di perdere posizioni e sicurezza all’interno dell’ambiente politico. Ma la questione Europa-Albania è un legame affettivo che sembra sfuggire agli albanesi, che l’accarezzano con la paura che morda, come reso evidente da Enio Civici, direttore dell’informazione a ScanTv, una delle principali rete televisive locali: “Perché sei qui, cos’hai visto? In questi ultimi mesi, nelle trasmissioni in Italia, hai visto delle cose brutte che ti hanno impaurito o si è trasmessa la pace che c’è qua oggi?”. Le domande sono sempre dello stesso tono: “E nella politica italiana si è parlato dell’Albania o no in questi mesi?”.
Democrazia?
Con l’ombra del comunismo che vaga ancora sul Paese, una vera e propria veste democratica l’Albania non l’ha ancora indossata. Come affermato da Gentiola Madhi, collaboratrice dell’Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa, c’è una “immaturità profonda dei politici albanesi” che fa sì che la concezione del potere sia vista dal punto di vista individuale e non come un dovere e servizio del popolo. Un potere esclusivo, condizionato anche dal sistema elettorale a liste chiuse che caratterizza la politica dei differenti partiti. Alla fine dell’intervista, Ervis dice la sua: “La fattura di tutto questo clima, le spese, le pagano le imprese e gli impresari. Una cosa che si riflette ancora di più sugli investimenti strategici italiani, tedeschi, francesi o che altri investitori dal mondo possono fare in Albania. Vedendo un petardo alla televisione o gente in piazza che brucia qualcosa e grida, quando leggi che l’opposizione ha fatto saltare i mandati, l’elezioni sono boicottate… ti passa la voglia di investire”.
Calma apparente
Il clima albanese era e resta quello di una calma apparente. E l’impressione è che l’Albania faccia di tutto per non mostrare il suo lato più burrascoso e inquietante. Le persone interrogate sulle elezioni e sul clima politico scuotono le spalle, dicendo che non sarebbe successo nulla e che non era successo nulla. Sì, qualche urlo e qualche bottiglia lanciata, ma “figurati, io ero a prendermi un caffè dall’altra parte della piazza”. L’aria era leggermente tesa all’interno dei seggi. Ma la conclusione di Ervis è chiara: “Una situazione esplosa all’ultimo. La politica albanese dopo gli anni ’90 non ha mai visto una cosa del genere, cioè un parlamento con mandati bruciati dalle opposizioni ed elezioni locali senza l’alternativa del Partito Democratico”. “Un clima incandescente senza precedenti – conclude Ervis – e con il peso maggiore che grava sulle spalle di piccoli e medi imprenditori. Un qualcosa che spegne tutte le possibili idee di investimento o per lo meno le fa stoppare finché la situazione non si normalizza”.
Il fatidico 30 giugno poco più del 20% dei votanti si è espresso, e nei 61 comuni dove si è votato in molti casi il candidato socialista Edi Rama era l’unico in lizza. E Rama ha vinto. Una democrazia fragile, che ha tenuto per poco, almeno fino a ottobre, quando l’Europa dovrà riaprire il caso Albania e decidere, una volta per tutte, il destino del Paese.
Fotografie di Lavinia Nocelli, Copyright Waamoz