Sognando l’Europa
Voci e storie da Smirne: l’hub turco dei migranti verso l’Europa

Sognando l’Europa

Smirne (Turchia). “Ho provato due volte ad andare in Europa. L’ultima volta sono stato catturato e incarcerato dalla polizia greca”. Abdulkadir, 34 anni, è uno dei 3,6 milioni di rifugiati siriani che, secondo i dati dell’UNHCR, vivono attualmente in Turchia. Dopo essere fuggito da Aleppo a causa della guerra, dal 2015 abita con la moglie e le quattro figlie a Seferihisar, una piccola città a 50 chilometri da Smirne, sulla sponda occidentale della Turchia.

Abdulkadir indica un tratto di costa coperto dalla vegetazione: “Quello è uno dei principali punti di partenza dei barconi con cui i rifugiati cercano di raggiungere l’Europa”. Nell’area di Smirne, spiega, è facile trovare anche chi organizza gli attraversamenti illegali via terra, al confine con la Grecia. “Ogni tentativo è molto costoso”, dice. Dopo essere stato respinto ad aprile, ora Abdulkadir sta cercando di raccogliere soldi per provare nuovamente a passare il confine: “Ritenterò dopo le elezioni, in questo momento ci sono troppi controlli”.

Le politiche sui rifugiati sono state centrali nella campagna per le elezioni presidenziali che, il 14 maggio scorso, hanno visto Recep Tayyip Erdoğan fermarsi poco sotto la soglia della maggioranza assoluta al 49,4%. In vista del secondo turno, in programma il 28 maggio, il presidente uscente – pur mantenendo un approccio spesso ambiguo sul tema – ha ricevuto l’endorsement del candidato ultranazionalista Sinan Oğan, che in precedenza aveva posto tra le condizioni una timeline per la deportazione di milioni di rifugiati. Nel tentativo di contendere a Erdoğan i voti dell’elettorato nazionalista, il leader dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu ha adottato posizioni sempre più intransigenti, promettendo di “rimpatriare tutti i rifugiati” se sarà eletto presidente. “Suriyeliler gidecek”, “I siriani se ne andranno”, recitano i suoi manifesti elettorali.

“La situazione sta peggiorando”, dice Maamoun, un ragazzo di 32 anni originario anche lui di Aleppo. Vive in Turchia dal 2015, da quando è scappato correndo per due chilometri oltre il confine, schivando i proiettili che puntavano lui e le altre persone in fuga. Nel 2011 aveva partecipato alle proteste studentesche in Siria contro il regime di Damasco. Durante la repressione è stato incarcerato due volte, prima dalle forze del presidente Bashar al-Assad per il suo sostegno alle Primavere arabe e poi dall’Isis: “Avevo saltato una delle cinque preghiere quotidiane, mi vennero a prendere e mi rinchiusero in prigione per una settimana”. 

Foto di Sergio Colombo e Giada Ferraglioni

Lo incontriamo per la prima volta in una taverna a Basmane, quartiere di Smirne che ospita una delle più grandi comunità di rifugiati siriani in città. I cartelli per strada sono sia in turco sia in arabo. “I politici dicono molte bugie, dicono che i cittadini turchi pagano per noi, ma non è vero”, racconta. “Noi lavoriamo, paghiamo l’affitto, paghiamo le bollette, paghiamo per qualsiasi cosa”. Quando lo intervistiamo, chiede di non essere ripreso in volto. Dice di non sentirsi al sicuro: “C’è molto razzismo in Turchia. Un giorno ero seduto sul lungomare con mio cugino, parlavamo arabo. Due persone si sono avvicinate e ci hanno intimato di parlare turco. Hanno minacciato di darci fuoco”. Maamoun racconta di essere discriminato anche sul posto di lavoro: “Sono pagato meno dei cittadini turchi, non ho assicurazione né malattia. Lavoro come stiratore, 14 ore al giorno e con un solo giorno di riposo”. Si sistema la visiera del cappello che gli nasconde il volto: “Qui in Turchia non c’è futuro. Sogno di andare in Europa, voglio continuare a studiare”.

Nelle vie laterali di Basmane, i negozi vendono giubbotti e attrezzature di salvataggio. Quando i gestori si accorgono che li stiamo fotografando, uno di loro arriva di corsa e ci urla di cancellare tutto. È giovane, sveglio e robusto. Indica l’Iphone e dice: “Elimina anche il backup”. 

Foto di Sergio Colombo e Giada Ferraglioni

“È molto facile contattare chi organizza i viaggi per l’Europa, puoi trovare i loro nomi senza problemi”, dice Maamoun. “Un mio amico è riuscito ad arrivare in Germania l’anno scorso e mi ha dato il numero di uno di loro”. Racconta di averlo contattato, ma di non avere abbastanza soldi per partire in questo momento: “Mando parte dello stipendio alla mia famiglia in Siria. E poi il viaggio [per l’Europa] è molto costoso, chiedono circa 8 mila dollari”. “Se li avessi”, dice, “proverei a partire. Qui mi sento in prigione”.

Maamoun e Abdulkadir, al pari di milioni di rifugiati siriani, vivono in Turchia con un permesso temporaneo noto come kimlik. Il sistema di Protezione Temporanea (TP) proibisce ai rifugiati di lasciare la città di residenza indicata ufficialmente, se non attraverso un permesso speciale. “Quando mio fratello si è sposato a Istanbul, non sono potuto andare al matrimonio”, racconta Maamoun. Il rischio è quello di incorrere in controlli della polizia ed essere arrestati, come accaduto ad aprile ad Abdulkadir: “Stavo tornando dal confine con la Grecia e sono stato fermato dalla polizia a Istanbul. Mi hanno messo in prigione per tre giorni”. 

Moussa Saied
Foto di Sergio Colombo e Giada Ferraglioni
Abdulkadir al-Musto
Foto di Sergio Colombo e Giada Ferraglioni

I rifugiati siriani con permesso temporaneo non hanno diritto di voto in Turchia, ma anche chi ha la cittadinanza guarda spesso alle elezioni con distacco. “Io non voterò”, dice Moussa, 26 anni, da sette in Turchia. “Non mi interessa chi vincerà. Il mio unico obiettivo è quello di tornare in Siria”. Il legame di Moussa con il suo Paese è profondo, come la ferita lasciata dalla guerra. Racconta di non essere interessato all’Europa e che, anzi, se potesse lascerebbe Smirne per andare a Sud Est, verso Gaziantep, provincia turca a meno di 70 chilometri dalla Siria e a poco più di 120 da Aleppo, la sua città. Anche lui è arrivato qui da solo, senza la sua famiglia. Quando gli chiediamo se ha speranze per il futuro, ride. “Non c’è nessuna speranza qui”. Poi si fa serio. “Ma se me lo chiedete, io ho solo due sogni: vedere mia madre prima che muoia e assistere alla caduta del regime di Assad”.

Come ci spiega Dilek Içten, giornalista ed esperta del Center for Media and Migration di Smirne, per chi sceglie di rimanere in Turchia e non rischiare il viaggio verso l’Europa, la situazione è complicata. Alcune associazioni provano ad arrivare dove lo Stato ha fallito, fornendo assistenza medica, lavorativa e alimentare a chi è in difficoltà. È il caso di Team International Assistance for Integration (TIAFI), attiva a Smirne dal 2017. Gli operatori ci mostrano le aule di fisioterapia avviate per i bambini che riportano ferite da guerra o che hanno difficoltà motorie dovute alle condizioni di vita. Ogni giorno offrono pasti caldi a chiunque ne abbia bisogno, insegnano il turco gratuitamente e organizzano corsi professionalizzanti per facilitare l’integrazione. 

Foto di Sergio Colombo e Giada Ferraglioni

Verso sera, Abdulkadir e Moussa ci riportano da Seferihisar a Smirne. Come da accordi, avremmo dovuto dividere le spese della benzina, ma non vogliono soldi. Ci fanno promettere di darli alle persone che dormono per strada. “Ne hanno più bisogno loro”, dicono. Due giorni dopo incontriamo ancora Maamoun, stavolta nel quartiere centrale di Alsancak. È quasi un altro mondo: gli studenti fanno festa fino a tardi e i loghi del CHP appaiono sulle maglie dei giovani attivisti pieni di aspettative per il cambiamento dopo 20 anni di AKP. Ma per chi non è turco, il futuro rimane congelato. “Il mio sogno resta quello di fare il giornalista”, dice Maamoun. “Sto prendendo lezioni di inglese, non riesco ad arrendermi al fatto di dover lavorare in fabbrica 77 ore a settimana”. Ha portato dei dolcetti siriani al latte per l’ultima merenda insieme.