
No man’s land
La terra di nessuno
La terra di nessuno
Terra di nessuno
Gli chiesi di spiegarsi meglio e lui sorridendo e guardando il cielo azzurrissimo di Atene, continuò: “reale è il dolore delle persone che non riescono a varcare certi confini perché “non autorizzati”, e perché, certo, quei confini politicamente sono reali ma sono solo delle linee immaginarie che qualcuno, un tempo, ha deciso di segnare su una mappa sulla base di criteri a volte strani e incomprensibili, o perché facevano comodo in qualche modo a loro e solo a loro, non certo in chi ci viveva, in quelle terre.

E ora c’è gente che per varcare delle linee immaginarie rischia la vita. Ci pensi? Sofferenza e morti per qualcosa che non esiste”. Pensai fosse una riflessione un po’ ingenua ma in fondo, per certi aspetti, vera.

Un terra dove i confini sono reali ma irreali insieme; cioè non significano nulla, poiché nessuno reclama la terra che questi stessi confini definiscono. L’altra, vicinissima a questa, al contrario è fortemente contesa dai due paesi confinanti, il Sudan e l’Egitto.

Percorrendo con lo sguardo la mappa dell’Egitto e procedendo verso sud, ci si imbatte in una precisa linea retta orizzontale che segna il confine con il Sudan. A un certo punto appare qualcosa di strano.

Sotto questa linea sono segnati altri confini, quelli di un piccolo fazzoletto di terra chiamato il “triangolo di Bir Tawil” (pozzo lungo, in arabo, o pozzo alto.) Il Bir Tawil è chiamato triangolo ma in realtà è un quadrilatero con forma trapezoidale all’altezza del ventiduesimo parallelo di latitudine nord. Questo fazzoletto di terra, con temperature diurne che possono raggiungere i 45 °C, è l’unica parte del pianeta, ad eccezione di una delle regioni occidentali dell’Antartide, la Terra di Marie Byrd, che non appartiene a nessuno poiché non rivendicato da nessuno Stato.

È una terra nullius, dunque. Furono gli inglesi a tirare questa linea retta in coincidenza del parallelo nel 1899, quando il Regno Unito aveva l’incontrastata egemonia della regione, e a stabilire che a nord avrebbe governato formalmente l’Egitto, che a quel tempo era sotto il controllo britannico, mentre a sud, nel Sudan, un rappresentante egiziano, quindi sempre controllato dall’Inghilterra.

La parte interna del territorio, che presenta una superficie di 2.060 km, è caratterizzata da rilievi desertici, rocce e sabbia dunque, attraversati sporadicamente dai uadi, (in arabo “torrenti d’acqua”). Tuttavia è un fazzoletto di terra completamente disabitato. Sia il Sudan che l’Egitto non hanno alcun interesse a rivendicare questo lembo di terra arido e vuoto.

C’è invece una zona, poco più a est di Bir Tawil, contesa tra Egitto e Sudan, chiamato il “triangolo di Hala’ib”. L’area di confine di questo territorio che comprende le aree di Halayeb, Shalateen e Abu Ramad, è controllata dall’Egitto. Fin dagli anni ’50, il Sudan ha rivendicato il triangolo di Hala’ib che si affaccia sulla costa del Mar Rosso al confine egiziano-sudanese, con un’area di circa 20.580 chilometri quadrati, sostenendo che rientra nella sua sovranità, e da quando ha ottenuto l’indipendenza dal dominio anglo-egiziano nel 1956, la regione è stata aperta al commercio e al movimento del personale dai due paesi senza restrizioni da nessuna parte, fino al 1995 quando l’esercito egiziano ne prese il controllo.

Il Cairo afferma infatti che il triangolo di Hala’ib è egiziano e nel 2016 si è rifiutato di avviare negoziati o ricorrere all’arbitrato internazionale per determinare il diritto alla sovranità sulla regione, cosa che invece chiede il Sudan, ribadendo ogni anno la sua denuncia dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu sull’area contesa.

Questa porzione di terra è decisamente più appetibile rispetto al vicino Bir Tawil, dal punto di vista strategico, per il suo sbocco sul mare e i suoi 260 km di costa, ma anche perché negli ultimi anni sono stati trovati dei giacimenti minerari e petroliferi. Anche se in questa situazione legalmente incerta è difficile che grandi compagnie petrolifere decidano di investire nell’area, almeno fino a quando la disputa non sarà risolta. Dal 2006 la zona è gestita da una sorta di co-amministrazione sudanese egiziana.

Ma ora l’apparente tranquillità sembra iniziare a incrinarsi. Come riporta il sito arabo Al-Monitor, il tenente generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio militare di transizione del Sudan, in un vivace discorso, tenuto davanti agli ufficiali dell’esercito e ai soldati, pronunciato il 24 agosto del 2020 nella zona militare di Wadi Seidna a Khartoum in occasione del 66° anniversario dell’esercito, ha sollevato ancora una volta il problema della regione di confine contesa con l’Egitto. Burhan ha detto che l’esercito non abbandonerà un centimetro dei territori del Sudan.

“Non abbandoneremo né dimenticheremo il nostro diritto fino a quando la bandiera del Sudan non sarà issata ad Halayeb, Shalateen e in ogni area controversa lungo i confini sudanesi”. Mentre ancora si discute quindi sul destino di questo lembo di terra, popolazioni nomadi e piccoli gruppi stanziali di un centinaio di abitanti occupano l’area, vivendo di pastorizia e piccoli commerci, il più importante dei quali è il mercato dei cammelli di El Shalatin, che in realtà si trova in Egitto (ed è il mercato di cammelli più importante di tutto lo Stato) ma nell’estremo Sud proprio sul confine con il Sudan, poco più a nord del territorio conteso, a circa 300 km da Assuan.

Percorrendo questo lembo di terra di nessuno, in fondo né veramente egiziana né veramente sudanese, ci si ritrova in un’immensa strada bianca e polverosa, con sporadici costruzioni poverissime o tende fatte di pali ricoperti di tessuti per proteggersi dal sole.

Non perchè si rischi la vita valicando i confini di Hala’ib, ma perché ci si chiede che differenza abbia se queste persone siano egiziane o sudanesi, e ci si chiede cosa faranno questi bambini dalla chiara origine sudanese che corrono inciampando tra le rocce bianche, quando un giorno si sentiranno dire da un soldato egiziano armato che non possono vivere lì dove hanno sempre vissuto. Domande ingenue anche queste, penso.

Ma domande impossibili da non fare davanti al percorso storico di un lembo di terra che diventa giocoforza lo specchio di ciò che accade nel mondo in paesi e territori più ampi e quindi con problematiche, anche religiose, più complesse che spesso sfociano in episodi cruenti se non in vere e proprie guerra.