Nel campo profughi più grande al mondo
Il caldo toglie il respiro, il caldo prosciuga la vita di ogni sua volontà e desiderio, il caldo incendia le sabbie, arde le nuvole e non da tregua. È lui il custode del più grande campo profughi al mondo: il Dadaab, in territorio keniota, a 80 chilometri dal confine somalo.
L’aereo atterra sulla pista sobbalzando e, una volta messo piede nella tendopoli, subito il Dadaab assorbe chi ci si addentra, come una titanica entità che fagocita le vite che lo popolano. È assoluto, inclemente, è tutto ed il contrario di tutto, il Leviatano Dadaab. Perché, laddove ci sono rifugiati, ci dovrebbe essere un rifugio, un luogo sicuro, una terra di transito e di salvezza, ma invece no: è una geenna d’Africa dove peccatori e innocenti attendono il domani e consumano l’oggi, intrappolati in una ciclopica clessidra di arena ardente senza fine apparente. Vagano gli uomini avvolti negli osgunti colorati, arrancano le donne dalla pelle d’ebano e gli hijab porpora alla ricerca di un pozzo, gridano i bambini con le maglie delle squadre di calcio d’Europa e volano i Marabustock, stringendo nel becco le frattaglie di dromedario. Eccolo, l’immenso campo profughi: un delirio lisergico fatto di temperature infuocate, di anime prigioniere del tempo e di un vento che trasporta la dannazione in ogni dove, la infila sotto la pelle, la lancia negli occhi insieme alla polvere e la urla incessante nelle orecchie. Questo è il Dadaab. Così è.
La storia della tendopoli affonda le sue origini negli anni ’90, quando la Somalia precipita nella guerra civile. Nell’ex colonia italiana cade il regime di Siad Barre e i signori della guerra incominciano una lotta senza quartiere che fa sprofondare il Paese del corno d’Africa in un’ anarchia di violenza, dove la sola legge è quella delle soldataglie. Al conflitto si aggiunge la carestia e uomini e donne scappano dalla propria terra e incominciano a rifugiarsi in Kenya. È un esodo umano incessante perchè in Somalia dagli anni ’90 ad oggi la violenza non arretra. Dai war-lords si passa allo jihadismo di Al Shabaab e sempre più persone fuggono, a piedi, a bordo di carretti trainati da asini, di notte e di giorno.
Uomini stanchi, personificazione dello stento, percorrono le piste della savana africana e chi ce la fa s’installa poi al Dadaab. Un enorme campo suddiviso in cinque tendopoli minori ( Hagadera, Kambioos, Ifo, Ifo II e Dagahaley) e che oggi accoglie 350mila persone. È la terza ”città” del Kenya per numero di abitanti dopo Nairobi e Mombasa, ma il sovra popolamento, la mancanza di strutture in grado di offrire i necessari servizi di sopravvivenza alla popolazione e l’assenza di prospettive concrete sul futuro hanno fatto si che, soprattutto tra le nuove generazioni, la ragione dell’oggi sia una rabbia assoluta, che nell’islamismo ha trovato il suo canale di sfogo. Vivere e sopravvivere sono parole gemelle al Dadaab: 50 chilometri di tendopoli dove il presente è solo un rosario di orrori; epidemie di colera, jihadismo islamico, consumo di droga e stupri e, ora che il governo di Nairobi ha annunciato di voler chiudere il campo in quanto fucina di terroristi, il domani per gli abitanti è ancor più vacuo: le minacce di chiusura sono arrivate, ma nessuna proposta su quale sorte riservare agli oltre 350mila rifugiati è stata avanzata.
I pick up entrano di primo mattino nel campo di Hagadera. I cassoni sono colmi di sacchi che vengono scaricati e decine di uomini e donne accorrono per aprirli, estrarre i ciuffi di qat e prepararsi alla vendita della sostanza psicotropa. Il qat è una pianta che viene coltivata e consumata in Kenya, nel Corno d’Africa e nella Penisola Arabica. Contiene i principi attivi delle catamine, sostanza analoga all’anfetamina, e gli effetti che produce sono di euforia, eccitazione, inibisce la fame e aumenta le pulsioni sessuali. Nel Dadaab, il consumo degli arbusti, che sono un vera e propria droga e così sono stati classificati anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è divenuto una piaga sociale. La dipendenza è in aumento, i disturbi psichici e le crisi depressive e paranoiche dovute al consumo anche, ma non c’è solo questo: a pagare le conseguenze dell’utilizzo dello stupefacente sono pure le donne, a cui è proibito masticare le foglie ma che sono sempre più vittime di stupri da parte di uomini alterati dalla sostanza.
Il sole è sorto da poche ore e i fuori strada stanno scaricando quintali di piante in tutti mercati della tendopoli. Gli uomini separano le piante, controllano che non ci siano rametti marci e che il quantitativo sia fresco di giornata perché, dopo 48 ore dalla raccolta, gli effetti diminuiscono. Poi incomincia la vendita e il consumo. Gli occhi sono vitrei la bocca gonfia di foglie, i denti eburnei diventano verdi e i segni dello stupefacente si metamorfizzano sul volto di Yussuf Mohamed che grida: ”Io sto bene, il qat mi dà forza, non ho lavoro, non ho da mangiare è lui che mi fa vivere”. Sono eloquenti le parole dell’uomo per comprendere il perché della diffusione della pianta, adulata come un simulacro della sopravvivenza nel deserto della disperazione. Il lavoro manca al Dadaab, il cibo viene distribuito mensilmente e non abbonda e la fede nel domani è stata abiurata dalle centinaia di migliaia di rifugiati, apostati dell’avvenire e indotti adulatori del fatalismo. Ecco quindi che contro la consapevolezza della miseria chili di qat vengono masticati.
‘‘Il qat è diventato una ragione di vita – spiega Simba Karimba a capo di un gruppo di venditori-. Non solo per chi lo consuma,ma anche per chi lo vende. È vero che crea problemi, ma qui ci sono solo problemi e il qat ce ne risolve anche molti. Le donne guadagnano qualche scellino per comprare il latte per i figli, i figli crescono e poi quando saranno più grandi quegli scellini li spenderanno per comprarsi dei rametti, masticarli e dimenticarsi per un po’ delle proprie sofferenze. Ed ecco che il qat ci permette di andare avanti nel nostro ciclo della non vita”. E così ancora un rametto nella guancia fino a gonfiarla, sino a farla scoppiare, fino a che le palpebre si chiudono, le tempie pulsano, le mascelle impazziscono, il cuore delira e la testa esplode e così si evade: e per un’ora, un giorno, una notte il Dadaab è un cielo di mille stelle e mille sogni; ma termina di esserlo con una nuova alba, col caldo torrido che arriva a imporre il suo regime e le pareti di sabbia della prigione di miseria ricordano che dal Dadaab non si fugge, neppure col qat.
Foto di Marco Gualazzini