La sacca dei principi dell’Isis dove si combatte fino alla morte

La sacca dei principi dell’Isis dove si combatte fino alla morte

(Ash-Shaafa, Siria) “2890, ripeto 2890, Ammar?”, dice l’ufficiale a un soldato al fronte tramite un walkie talkie, passando le coordinate al comandante per inviare supporto aereo. Sono le 8 di sera a Ash-Shaafa, una delle ultime sacche di resistenza dello Stato islamico nella regione di Deir Ezzor, nel sud-est della Siria.

selezione 1
I militari curdi che stanno eliminando le ultime sacche di resistenza dello Stato islamico (Foto di Filippo Rossi)

L’operazione “Jezira Storm” delle Forze democratiche siriane (Sdf) per riconquistare i territori sud-orientali si sta ormai concludendo. Le Fde, nate dall’unione dello Ypg curdo (Unità di protezione popolare) con varie milizie arabe e sostenute dalla coalizione internazionale a guida americana, hanno circondato in una lingua di terra fra il confine iracheno a sud, il fiume Eufrate a ovest gli ultimi “Amir” (“principi” in arabo) di Daesh e i loro soldati, affamati e bombardati da mesi.

Per loro è arrivato il momento di combattere fino alla morte per ottenere il martirio, loro vero obiettivo. È dalle 5 di sera, quando il buio invade il territorio, che cominciano gli attacchi per liberare la città. Il freddo è pungente. A 100 metri dal fronte, i soldati si preparano, caricano i fucili e riempiono i caricatori.

Si abbracciano scherzano cantano e si riscaldano di fianco al fuoco. Maher, comandante del gruppo d’avanzata centrale, espone il piano mentre impartisce gli ordini: “Proviamo ad avanzare di circa un chilometro. Il rischio più grande sono le autobombe o i terroristi con cinture esplosive. Inoltre, se un loro soldato è ferito lo imbottiscono di esplosivo e lo mandano in prima linea per farsi esplodere”.

I soldati attendono il loro turno tranquillamente. “Paura? Perché dovremmo averne? Se fossimo spaventati, non saremmo qui” dice galvanizzato il 17enne Abdel Kadi. Sulla mano sinistra ha tatuato il nome della sua amata. Quando è il loro turno, salgono sui blindati e partono a gruppi di sette.

I colpi di kalashnikov che inquinano la bellezza della notte significano che hanno raggiunto il punto di contatto. La battaglia è iniziata. Il paesaggio è surreale. Il naso respira polvere da sparo, le orecchie sentono le continue esplosioni dei bombardamenti dei jet che si intercalano ai colpi di mortaio. Gli occhi, invece, hanno di fronte lo spettacolo più triste: i crateri di dieci metri scavati dalle bombe in mezzo alla strada e i villaggi diventati ferraglia e macerie. Niente distrugge di più che una bomba sganciata da un jet. E le Forze democratiche siriane, sostenute dai bombardamenti dalla coalizione, si sono lasciate dietro una scia di distruzione, radendo al suolo intere città riconquistate in tutta la regione. La stessa sorte è toccata anche a Hajiin, Ash-Shaafa e Soussa, ultimi baluardi del califfato a sud-est, zona strategica e ben difesa dal Califfato.

“È difficile combattere un nemico che vuole morire per andare in paradiso”, commenta Marvan Qamishlo, comandante curdo delle comunicazioni al fronte. “In questa regione, lo Stato islamico ha costruito tunnel e accumulato riserve di munizioni per anni. Non è un segreto, poi, che la Turchia li abbia appoggiati”.

Vero oppure no, l’Isis combatte fino alla morte per ogni millimetro. “Quando ci sono le tempeste di sabbia, ci attaccano con 400 o 500 miliziani, oppure riappaiono dietro le nostre linee tramite i tunnel”. Il territorio, considerato strategico per la presenza di petrolio e i ripari naturali per scappare di là dal confine iracheno o dall’altro lato del fiume, è stata una roccaforte da espugnare.

“Ora non rappresentano più un vero problema” dice invece Jegar, comandante in capo dell’avanzata, mentre dichiara vinta la battaglia per Ash-Shafa conclusasi verso le 2 del mattino. La riconquista delle Forze democratiche siriane è avvenuts anche grazie all’organizzazione delle truppe curde appartenenti all’Ypg, che la Turchia accusa di essere affiliate al Pkk turco e che loro non negano. Tra le file si sente parlare turco e alcuni comandanti dicono esplicitamente di provenire dal “Kurdistan del nord”.

“L’80% dei soldati delle Forze democratiche siriane sono ormai arabi che i curdi sostengono tatticamente o comandano. Non è più la nostra guerra”, sostiene Amir, un militante del Pkk che ha deciso di fare un voto per la vita, lasciando tutto per combattere la sua causa. Le truppe curde sul campo sono diventate l’élite, come le ragazze soldato, diventate il simbolo della lotta per la liberazione del Rojava dall’Isis e arrivate a combattere sino al fronte meridionale: “Sono fiera quando uccido un terrorista. Combattiamo per il nostro Paese, per proteggere le donne e la popolazione. Sappiamo che abbiamo un vantaggio sui terroristi. Li indeboliamo psicologicamente. Per loro è ‘haram’ (proibito, Ndr) essere uccisi da una di noi”, dice il loro comandante, Ronahi.

selezione 4
Le ragazze curde in prima linea contro lo Stato islamico (Foto di Filippo Rossi)

Le ragazze, sono inviate in battaglia in casi complicati, per essere di sostegno alla truppa, galvanizzata dalla loro presenza e per disturbare il nemico, che è al contrario irritato. Intorno alla zona assediata, le Forze democratiche siriane hanno aperto un corridoio per permettere ai civili di fuggire dal continuo bombardare, dalla fame, la sete, la distruzione. Molti di loro sono vittime, altri invece ne approfittano per scappare alla morte o alla prigione, celando il loro passato di miliziani, oppure infiltrandosi come cellule per cominciare una guerra di terrore. Una carovana di un centinaio di civili arriva su camioncini e trattori.

Donne velate, bambini assetati, giovani ancora con la barba imposta loro dallo Stato islamico. Molti i feriti, rimasti da tempo senza cure. “Queste persone possono essere pericolose”, dice Birvan, soldatessa curda che assiste i nuovi arrivi. “Abbiamo esperti che sanno riconoscere chi è un miliziano e chi no. Se sospettati, sono arrestati altrimenti vanno in un campo rifugiati”.

 Molti di loro non vogliono parlare per timore di essere riconosciuti. Altri invece, chiedono cibo, urlano per il dolore. Ammar, ha perso entrambe le gambe in due differenti occasioni ma sempre a causa di una mina. La stessa sorte è toccata anche ai suoi fratelli. Siede nel furgone con quel che rimane delle gambe, fasciate al livello dei ginocchi ed emettendo dei lamenti.

selezione 6
I civili in fuga dalle bandiere nere del Califfato (Foto di Filippo Rossi)

“Lo abbiamo curato con acqua e sale, perché all’ospedale non ci facevano entrare. Davano precedenza ai combattenti. Ho provato a scappare quattro mesi fa, ma ci hanno scoperto. Ho passato tre mesi in prigione”, racconta disperato il padre.

Dall’altro lato, molti bambini si contendono alcune bibite date dai soldati. “Siamo scappati per via dei bombardamenti e per la fame. Mio marito è morto nella sua macelleria per via di una bomba”, commenta un’altra donna disperata attraverso il suo niqab.

Nelle carovane precedenti erano presenti anche molti stranieri, arrivati da tutto il mondo, dando l‘idea dell’internazionalità dell’ideologia terrorista, superstite più pericolosa al termine della battaglia.

Daesh significa società. Queste persone che fuggono sono rimaste sotto di loro per anni e molte sono loro simpatizzanti. Dopo averli eliminati militarmente, bisognerà combattere l’ideologia”, sostiene timorosamente Amir.

Una donna, infatti, conferma il pericolo: “Vivevamo bene sotto lo Stato islamico. Ma cinque mesi fa, con l’inizio dell’assedio, le cose sono cambiate”. “La riabilitazione è fondamentale. I Foreign Fighters che scappano, anche se la maggior parte combattono fino alla morte, sono spostati in un campo separato. Contattiamo in seguito i loro governi. Gli altri, in prigione, sono aiutati a reintegrare la società. Ma se gli Stati Uniti ci lasciano soli, oltre alla Turchia dovremo affrontare anche una risurrezione dello Stato islamico”.