
Tra i giovani del Myanmar pronti ad imbracciare le armi
Sono da poco passate le cinque del mattino. È ancora buio quando le reclute birmane escono dalle loro capanne di bambù nascoste tra la boscaglia per radunarsi, fare l’appello e iniziare l’addestramento. Alcuni ragazzi sono in mimetica, altri in maglietta e pantaloncini, le uniche due cose portate via durante la fuga dalle rispettive città per raggiungere i territori controllati dai guerriglieri Karen nella giungla del Myanmar orientale.
“Non abbiamo portato nulla con noi, solo la volontà di combattere i militari birmani”, ci dice Theim Then Talin, 24 anni, che arriva da Yangon. “La mia famiglia è ancora in città e non sa che sono qui ad addestrarmi. Non posso farlo sapere, altrimenti li metterei in pericolo”, aggiunge prima di unirsi ai suoi compagni, richiamato dal responsabile del training.

La giornata parte con una corsa intorno al perimetro della base, poi flessioni, addominali e ancora di corsa su e giù per la collina, nei piccoli sentieri quasi impenetrabili della foresta. Alcuni dei ragazzi arrivati sono giovanissimi. Raccontano il terrore di questi mesi, i loro sogni e le speranze per il futuro. Tra loro c’è Jo Jo, 20 anni, studente di Bago – una città a 80 chilometri a nord est di Yangon, teatro di una violenta repressione dell’esercito – vivo per miracolo. “Guarda qua, i militari mi hanno sparato durante le dimostrazioni, mi hanno colpito mentre cercavo di scappare da loro”, spiega alzando la maglia e facendoci vedere le cicatrici causate dai proiettili.

“Era il 27 marzo, ci stavamo preparando per una protesta, quando i militari birmani sono arrivati e hanno aperto il fuoco a caso contro di noi”. Quel giorno, una delle tante giornate macchiate di sangue, assieme a lui sono stati centrati anche altri ragazzi. “Hanno colpito molti di noi, con alcuni siamo riusciti a fuggire, altri sono stati catturati e altri sono morti”, continua a raccontare. “Quando siamo tornati per cercare di portare via i corpi dall’asfalto, ci hanno sparato ancora. Ero ferito e non potevo né tornare a casa perchè ero ricercato, né andare in un ospedale per curarmi, perchè sono tenuti sotto stretto controllo dai soldati”.

È proprio in quel preciso momento che Jo Jo fa la scelta più difficile, ma quasi obbligata. “Ho incominciato a chiedermi che senso aveva protestare e rischiare la vita in quel modo, senza neanche avere un’arma per difendersi… Così ho deciso. La cosa migliore era mollare tutto e venire qua con i Karen per prepararmi a combattere”.

Qui, questo ragazzo, assieme agli altri, sta imparando a sparare. Nel pomeriggio, dopo aver preparato il pranzo con riso e pesce essiccato e dopo aver mangiato assieme su una sponda del fiumiciattolo che attraversa il campo, inizia il training con le armi. Il Capitano Tua della Karen National Defence Organization (Kndo), responsabile dell’addestramento, fornisce tutte le indicazioni. A turni di quattro persone, le reclute birmane iniziano a smontare i fucili M16 e Ak47. Lo faranno a ripetizione, finché il risultato non sarà soddisfacente per l’istruttore. Poco più tardi, le armi vengono caricate, i ragazzi si mettono a terra, si preparano e al comando fanno fuoco.

“Gli stiamo insegnando ad usarle correttamente”, precisa Tua. “Quando il corso sarà finito, saranno pronti ad entrare in azione”. Ci vorranno alcuni mesi, però. Almeno sei, secondo quanto ci dice il Generale Nerdah Mya, leader del Kndo. Non solo perchè comunque i volenterosi birmani non hanno armi e fino ad ora nessuno sembra finanziarli apertamente, ma anche perchè sta iniziando la stagione dei monsoni e le incessanti piogge potrebbero rallentare tutto. “Aspetteremo il tempo che ci vuole e poi torneremo nelle città a combattere”, spiega Win Htike Lwin, anche lui arrivato da Bago, mentre in un momento di pausa canta la canzone della rivolta assieme ai suoi nuovi amici. Intanto altri birmani stanno cercando di raggiungere la zona ed unirsi agli insorti. Il percorso per arrivare da queste parti è pieno di difficoltà e insidie.