Donne in prima linea

Donne in prima linea

Una luce soffusa si diffonde sotto il tendone collocato al centro del cortile. Lì, ragazzi con camicie inamidate siedono ai tavolini dove sono appoggiate narghilè che bruciano tabacco aromatizzato. Le ragazze, col velo che incornicia il volto, a gruppi, chiacchierano in disparte e gli occhi, che brillano nel buio come scimitarre contornate dal kajal, lanciano inviti silenziosi. Poi Hassan Hassan finisce la sigaretta, sale sul palco, imbraccia l’oud (strumento a corde di origine araba ndr) e dalle note delle strumento a corde e dalla voce melanconica e sottile nascono parole che parlano di amore, di pene e di gioie e infondono un’irresistibile necessità nel pubblico di battere le mani e poi danzare. Tra l’odore di erbe e di incenso, tra i vapori delle tazze fumanti di thè, nel buio della notte di Mogadiscio, vanno in scena la vita, il piacere e il desiderio: sentenza capitale, ieri, resistenza alla prigionia dell’orrore oggi.

Ecco il Posh Treats: Macondo in Mogadiscio, dove la speranza è divenuta tangibile grazie a Manar Moalin, una donna di 33 anni, tornata nella sua terra dopo una vita trascorsa tra Napoli, Londra e Dubai, che ha creato il primo ”country club” della Somalia.

Sono rare le macchine che circolano per le vie della capitale dopo che il sole è tramontato. Ed è attraversando i vicoli che dal centro portano al km5 che si percepisce il terrore provocato dalla guerra congiunta all’oscurità. La minaccia è ovunque, l’agguato è immaginato in ogni istante ma poi, improvvisa, una piccola via e lì, come un fortezza, il locale di Moalin.

Guardie armate di kalashnikov a presidiare il desiderio di vita, una torretta e sacchi di sabbia oltre a barriere di cemento, per scongiurare eventuali attacchi con autobombe e poi, dopo la perquisizione delle vetture ecco la porta d’accesso al locale e la titolare ad accogliere gli ospiti. Eleganza, raffinatezza del velo e del trucco e il portamento fiero: così la giovane donna conduce all’interno della struttura. E racconta: ”Io quando è scoppiata la guerra in Somalia, sono andata via. Faccio parte del popolo della diaspora. In fuga dalla mia terra mi sono fatta una vita tra l’Europa e Dubai, per me, però, le radici sono importantissime: posso essere ovunque nel mondo ma sarò per sempre somala”. La donna riceve una chiamata al walkie talkie, poi aggancia torna a spiegare la sua storia : ”Gestivo un centro benessere a Dubai; quando ho percepito però che la situazione a Mogadiscio era più calma rispetto al passato, sono tornata qua e ho avviato il Posh Treats”. Il suo centro è un complesso che accoglie un parrucchiere, una sala massaggi, un salone per giocare a biliardo e un cortile con lo spazio concerti. E mentre è seduta a sorseggiare un thè, contempla le persone che assistono allo spettacolo e confida: ”Io ho avviato tutto questo perchè la gioventù somala ha il diritto di godere della vita. Ma per farlo, per permettere ai ragazzi di essere loro stessi e di concedersi un po’ di felicità, ho dovuto rinunciare alla mia, di vita”. Nella sua storia è racchiuso il dramma di una tragedia ellenica, recitata su un proscenio africano: si scorgono infatti il dolore e la privazione connaturati nell’eroe, che diviene tale per la decisione di votarsi alla propria morte per la vita altrui. Manar infatti spiega: ”Io ho aperto questo posto nel gennaio del 2015 e da quel momento ho ricevuto fiumi di minacce. Non esco più da queste mura. So che se mi azzardassi a uscire, non farei più ritorno”. Intanto, mentre la proprietaria del locale confessa il suo contingente da prigioniera nel suo stesso sogno, quello che stanno vivendo i ragazzi che parlano e ballano insieme, che concepiscono il desiderio e vivono amplessi di libertà, è un puro presente d’edonismo, senza limiti e frontiere.

Analoga a Manar Moalin a Mogadiscio è la storia di Lul Osman, anche lei figlia della diaspora, cinquantenne, arrivata in Italia negli anni ’90 e oggi tornata nella capitale, dove ha dato vita a un’associazione che si occupa di aiutare le donne somale nello svolgere attività economiche, fiduciosa tra l’altro che la popolazione del suo Paese, mossa dalla voglia di un futuro per anni negato, possa transitare la nazione verso un avvenire di pace. Un’altra delle protagoniste femminili è Zara Mohamed Ahmed, che attraverso la sua associazione, Somali Woman Development Center, lavora ogni giorno per garantire supporto medico e legale alle donne e lei stessa, nel suo ufficio affacciato sull’Oceano Indiano, racconta: ”La società femminile è la guida di questa repubblica. Sono le donne a vendere il thè ai mercati, a badare ai figli, a portare il pane in casa. Sono però anche vittime di violenze e soprusi, ma la loro tenacia le ha portate ad essere la guida, non riconosciuta, della Somalia”.

E le parole di Zara sono profetiche per quello che è lo spettacolo che si presenta al Mogadishu Stadium nel quartiere di Abdel Aziz. Una folla eterogenea di persone è assiepata sugli spalti. Ci sono uomini e ragazzi, miliziani con gli Ak47 in mano e donne con i niqab. In campo, invece, si scaldano le giocatrici delle due squadre di pallamano femminile, che si stanno esercitando prima di iniziare a disputare la finale del torneo.

Hegen contro Gaadika, la coppa a bordo campo, i rituali di incoraggiamento e poi l’ inizio del match. La cornice è un tuffo nell’incubo: ovunque sono presenti i segni dei combattimenti del ventennale conflitto, le cicatrici delle pallottole impresse sui muri, i palazzi abbattuti, che come memoriali della tragedia, circondano il centro sportivo e poi riaffiora il ricordo dell’orrore, della sharia e di quando negli stadi avvenivano le esecuzioni.

Il dipinto ora è agli antipodi: c’è la speranza, la felicità dei gol, l’esultanza e le grida di gioia per la vittoria. Le urla che hanno raccontato Mogadiscio per oltre vent’anni erano di dolore, paura e morte; oggi invece, all’interno dello stadio, sono un coro di battaglia in nome della felicità. Una palla in rete, le ragazze in divisa giallo nera che corrono e si abbracciano e l’utopico domani migliore che sembra materializzarsi in quell’ istante di vita che la popolazione di Mogadiscio riassapora. Ma i tre fischi pongono fine al match e a quei minuti pervasi da un lirismo di rinascita.

Ricompare Mogadiscio fuori dallo stadio, i pick-up e e le milizie e le tendopoli: permane però la prova dell’ audacia delle donne di Mogadiscio, che hanno reso tangibile, attraverso un sacrificio disinteressato, il sogno di una poetica di vita in grado di scalfire l’incubo di una contemporaneità non ancora libera dalla morte.