In Siria per annientare l’Isis nell’ultima roccaforte del Califfo

In Siria per annientare l’Isis nell’ultima roccaforte del Califfo

Baghuz Tahtany (Siria) – “Colpisci, colpisci, colpisci” urla il combattente curdo con il dito sul grilletto di una mitragliatrice sdraiato sul tetto diuna casa trasformata in postazione di prima linea. Il rombo del caccia americano in picchiata gela il sangue. Un attimo dopo il fragore terrificante dell’esplosione di una bomba da 250 chili ti rimbomba nelle orecchie. Una possente colonna di fumo nero si alza velocemente verso il cielo fra le case basse e le palme dell’ultima roccaforte dello Stato islamico nella Siria orientale.

La spallata finale delle Forze democratiche siriane a Baghuz Tahtany è scattata sabato alle 6 del pomeriggio con un pesante fuoco di copertura dell’artiglieria americana e francese della colazione anti Isis. Gli irriducibili seguaci del Califfo sono asserragliati in una cittadina in campo aperto, che non copre un’area superiore ai sei chilometri quadrati, come un quartiere di Roma. Un anno e mezzo dopo la  caduta di Raqqa, la storica “capitale” dell’Isis in Siria anche l’ultimo fazzoletto di terra in mano agli integralisti sta capitolano di fronte all’avanzata dei curdi.

Dalla collina che domina la ridotta delle bandiere nere i combattenti sparano con una mitragliatrice di grosso calibro montata sul retro di un fuoristrada. A meno di un chilometro il martellante appoggio aereo anche con i droni invisibili e silenziosi sta facendo a pezzi gli ultimi nascondigli dei miliziani jihadisti. Una bomba di 500 chili esplode in mezzo alla cittadina sollevando un enorme fungo di fumo nero.

“I terroristi sono ancora 500 o forse più. Quasi tutti combattenti stranieri europei, ceceni, sauditi, afghani, turchi, che non hanno nulla da perdere. E usano i civili, almeno 2000, come scudi umani” spiega a il Giornale, Adel Judi, il comandante della brigata Qamishli. Barbone nero, mimetica da battaglia, pistola alla cintola e ultimo mitra americano guida i suoi uomini sul fronte a duecento metri dalle bandiere nere.
Abdallah, che ha perso tutte e due le gambe sulle mine, è riuscito a scappare dalla sacca raggiungendo il primo posto di controllo curdo. A Baghuz Tahtany aveva un negozietto di generi alimentari frequentato dai  volontari internazionali della guerra santa. “Ci sono tanti europei e ho visto anche degli italiani, che sono venuti a combattere dal vostro paese – sostiene il venditore senza fornire prove evidenti – Tutta gente che non si arrenderà”.

La cittadina è devastata da  settimane di combattimenti. Case sventrate, cumuli di macerie per chilometri ed automobili accartocciate. Il paesaggio è lunare.

In alcuni punti le linee sono così vicine, che si vedono bene le donne velate dalla testa ai piedi dei mujaheddin del Califfo in cerca di qualcosa da mangiare per sopravvivere all’assedio. Ogni tanto sfrecciano sulle motociclette i seguaci dell’Isis, che sono il bersaglio preferito dei droni.

Nella notte fra sabato e domenica il cielo sopra il villaggio di Baghuz Tahtany si illumina di traccianti e vampate rosse degli attacchi aerei e con le armi pesanti. Il baccano è infernale. Le granate di mortaio partono con un tonfo sordo e passano sfregolando nell’aria sopra le nostre teste per centrare le postazioni degli ultimi jihadisti. Il primo giorno d’attacco resistono duramente, ma alla fine devono cominciare a ripiegare. Non sarà facile spazzarli via, ma oramai è iniziato il conto alla rovescia per la fine dell’ultima sacca delle bandiere nere.

Le mogli del Califfato scappano con i bambini in braccio percorrendo lunghi tratti a piedi del corridoio umanitario di 8 chilometri aperto dai curdi. I puntini neri delle donne che indossano il velo integrale, come imposto dal Califfato, si vedono bene sulla pianura davanti al villaggio solcata da piste di terra battuta. Se sbagli percorso salti in aria su una mina. “Per metterci in salvo ci affidiamo a dei trafficanti, che promettono di portarci in  Turchia pagando 2000  dollari a persona. Ma in realtà ci consegnano ai curdi” raccontano le mogli dell’Isis buttate in un buco nel terreno per ripararsi dal freddo.

Fatima Bakat, siriana di 23 anni nata ad Aleppo è una delle poche che si scaglia contro lo Stato islamico. Dal velo integrale spuntano solo gli occhi.  “Tutti i civili vogliono fuggire, ma hanno paura dei mujaheddin. Ci terrorizzano dicendo che se scappiamo i kufar (gli infedeli nda) ci violenteranno – racconta la ragazza con un bambino in braccio –  Se scoprono qualcuno in fuga lo ammazzano sul posto”.

Molte sfollate sono vedove. I loro mariti hanno perso la vita combattendo per il Califfo. Um Abdullah non è il vero nome di una capetta di un gruppetto di kazake, che intima all’interprete di “non fumare. E’ haram (peccato) secondo il Corano”. La vita nello Stato islamico “era normale prima delle bombe”. Alla siriana che ha osato parlare con noi ordina di non chiamare “i curdi “fratelli” perché sono infedeli”.

Dopo qualche giorno all’addiaccio le mogli dell’Isis vengono trasferite in due campi sorvegliati dove vivono circa duemila spose straniere dei mujaheddin, assieme ai loro bambini, comprese due italiane arrivate in Siria dal Veneto. Gli agenti mascherati della Cia e dell’Fbi, che le identificano una ad una sono interessati soprattutto alle occidentali. Pochi giorni fa sono arrivate due canadesi e una tedesca sposata ad un pezzo grosso dell’intelligence del Califfato.

Gli uomini che fuggono sono pochi e talvolta feriti. Barba salafita, sguardi da tagliagole hanno combattuto fino all’altro giorno per l’Isis, ma ovviamente giurano di non avere mai imbracciato un’arma.