bakhmut
L’orrore delle battaglie negli occhi dei feriti
Ritorno al fronte un anno dopo

L’orrore delle battaglie negli occhi dei feriti

Non esistono dati ufficiali forniti dal governo di Kiev, ma si stima che i soldati ucraini morti in quest’anno di guerra siano circa 100mila. Sarebbero il doppio, invece, i militari russi caduti in battaglia. Dall’inizio dell’invasione russa, in Ucraina hanno perso la vita circa 7.200 civili, secondo un computo dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani. I feriti sono invece quasi 12mila. È durato 82 giorni l’assedio della città portuale di Mariupol, a sud-est, dove per mesi l’esercito russo ha interrotto la fornitura di acqua ed energia elettrica e sottoposto la città a costanti bombardamenti, anche su edifici civili.

Dall’inizio dell’invasione russa, gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina circa 27 miliardi di dollari in aiuti militari. Dall’Unione europea sono arrivati a Kiev altri 30 miliardi in aiuti militari e umanitari. Un’analisi del Guardian sui dati Isw mostra che, dopo aver occupato circa 132mila kmq di terra ucraina, la Russia ne ha perso un quinto. Ora controlla 103mila kmq di terra ucraina, nel Sud e nell’Est, pari al 17% dell’Ucraina. Secondo l’Onu sono circa 8 milioni le persone fuggite dall’Ucraina dall’inizio del conflitto. Altri 5,3 milioni sono gli sfollati interni, cittadini ucraini che sono rimasti nel Paese ma hanno dovuto lasciare le loro case.

“Quando non riesci a salvare il ferito e trovi nella giubba le foto dei suoi cari è il momento più difficile, di infinita tristezza”, racconta commuovendosi la ragazza bionda, che ha la nonna in Italia. Mimetica, forbice da primo soccorso appesa alla giubba, distintivo “memento mori”, occhi limpidi come il cielo è pronta nell’ambulanza con la barella sporca di sangue dell’ultimo soldato in fin di vita sul fronte di Avdivka nel cuore del Donbass. La coraggiosa paramedica ucraina ha poco più di vent’anni, ma oramai vive con la guerra dentro. Il suo compito è fra i più rischiosi: evacuare i feriti dalla prima linea, sotto il tiro dei russi.

Il ritorno al fronte, un anno dopo l’invasione russa, è un miscuglio di ricordi ed emozioni sul solco di un conflitto sempre più aspro e sanguinoso, che sembra senza fine. A Kiev il benvenuto è il solito ululato, lugubre, dell’allarme aereo, ma la gente per strada non ci fa caso. Dei 63 chilometri di colonna che nel febbraio di un anno fa si calava dalla Bielorussia sulla capitale, devastando i sobborghi di Bucha e Irpin, restano solo le carcasse arrugginite di alcuni carri armati e blindati davanti alla chiesa di San Michele in centro città. Monito e ricordo dell’invasione dove i genitori portano i figli in visita davanti al muro dei caduti. A Kiev la gente si sforza di vivere normalmente: il traffico intasa il centro e sparisce solo alle 23 con il coprifuoco. I ristoranti sono pieni come se la popolazione avesse fatto l’abitudine alla guerra.

Basta mezza giornata di treno verso Est per arrivare nell’inferno del fronte orientale. I vagoni per Kramatorsk sono pieni di soldati. La città è invasa dai militari, che stanno scavando trincee per la prossima battaglia. Kramatorsk è la linea del Piave nel Donbass. L’offensiva russa avanza lentamente e con un enorme numero di perdite. Per il 24 febbraio gli invasori non sono riusciti a conquistare Bakhmut, la Stalingrado ucraina, attaccata da mesi. Tutti ne parlano, ma arrivarci è un incubo. Per i giornalisti l’unica possibilità di sopravvivere è correre, non stare mai fermi, con il sibilo delle granate che ti passano sopra la testa. I russi sono a duecento metri dal centro ridotto a una desolazione di macerie. Soldati e civili vivono rintanati negli scantinati dei palazzi sbrecciati dalle bombe, come a Stalingrado durante la seconda guerra mondiale.

L’orrore della guerra si riflette nello sguardo dei feriti. “Due giorni fa il cuore di un soldato si era fermato. Una granata gli aveva sfondato petto, stomaco e gambe, ma lo abbiamo trasfuso e stabilizzato. Un miracolo”, racconta Roman, giovane anestesista che da civile lavorava in un ospedale pediatrico. Adesso è al fronte in uno delle dozzine di centri di primo soccorso del fronte nel Donbass. Il rombo del cannone è un sottofondo a intermittenza. Due ambulanze arrivano con i lampeggianti accesi trasportando feriti gravi barellati. Uno è colpito alla testa avvolta da bende insanguinate. Un paio di feriti più lievi barcollano scendendo dall’ambulanza con gli occhi vitrei. I paramedici sono muti e si muovono come robot trasportando le barelle verso una sala di rianimazione dove devono strappare i feriti critici alla morte. L’obiettivo è trasferirli, entro un’ora, agli ospedali nelle retrovie per gli interventi chirurgici.

All’interno del centro ricavato in un vecchio edificio sovietico sembra che ci sia il caos, ma in realtà tutti si muovono in fretta perché un attimo di titubanza può fare la differenza fra la vita e la morte di un soldato. Odore pungente di disinfettanti, bende insanguinate, lamenti dei feriti e il vociare degli ordini si mescolano dando l’idea dei veri effetti della guerra. “La media è dai 50 agli 80 feriti al giorno, ma ci sono punte di 100 e anche più. Ne abbiamo persi solo dieci nell’ultimo mese”, dichiara Oleh, il capo, un omaccione con forbice chirurgica alla cintola e cappellino da baseball.