
Senza futuro
In tutta Yerevan, ovunque, si osservano striscioni neri con impresso il nome e l’età dei ragazzi caduti durante la guerra. Non ci sono addobbi natalizi nelle vie della capitale del Paese caucasico ma soltanto foto e cartelloni che ricordano le vittime del conflitto del Nagorno Karabakh.

La città è listata a lutto e dal teatro dell’Opera sino a Piazza della Repubblica, dalle periferie travolte dai palazzi di epoca sovietica sino alle campagne innevate, in ogni dove si incrociano sguardi lontani, afflitti ed ermetici espressione di una sofferenza corale che, nella dimensione privata, raggiunge il suo parossismo di dolore, tragedia e solitudine.
È quindi necessario conoscere le storie singole, personali, che con la loro autenticità spiegano il disordine delle vite meglio delle notizie, per capire i fatti in maniera più vera e umana e avere così una comprensione immediata e assoluta dell’orrore del conflitto.

Decine di migliaia di cittadini del Nagorno Karabakh oggi vivono in alloggi di fortuna nella capitale armena. Migliaia di famiglie, che hanno dovuto abbandonare le principali città dell’Artsakh, hanno trovato ospitalità in alberghi e case private. In un piccolo appartamento della capitale vivono Karen e Lilith, madre e padre di Aren, un ragazzo di soli 18 anni morto dopo 40 giorni di scontri.

È una casa albergata da un supplizio indicibile dove il tempo sembra essersi arrestato per sempre: nessuna speranza, nessun futuro, tutto sospeso in un limbo contingente di perpetua malinconia, incomprensibile pena e dignitosa pietà. Su un piccolo pianoforte è appoggiata la foto di Aren, la madre Lilith, con cura, accende un incenso e con dolcezza accarezza la foto del ragazzo.

“Noi siamo originari di Shushi, poi quando mi è stato proposto di andare a lavorare a Stepanakert ci siamo trasferiti tutti lì”. È il padre a raccontare la storia della famiglia e di suo figlio: ”Mio figlio andava bene a scuola, a lui piaceva moltissimo la fisica, e come tutti i ragazzi della sua età giocava a calcio. La sua grande passione però è sempre stata la chitarra”. Poi il 27 settembre, la guerra con l’Azerbaijan e la cartolina di chiamata alle armi.

”Quando è esploso il conflitto Aren è stato mandato a combattere. Non aveva ancora finito il servizio militare e neppure l’addestramento, ma nessuno si è posto degli scrupoli nel mandarlo in prima linea”, spiega il padre con pacatezza e lucidità e poi aggiunge: ”Quando è morto nessuno però ha avuto il coraggio di dirci esattamente che cosa fosse successo. Siamo stati informati che Aren era stato ferito e che dovevamo recarci in ospedale. Solo in quel momento abbiamo saputo che invece era stato ucciso”.

Non c’è rancore e in nessuna misura odio o revanscismo nelle parole dei genitori ma un profondo desiderio di misericordia e silenzio: ”Non sopporto la retorica dei politici e di tutti coloro che definiscono mio figlio un eroe – prosegue Karen- Io e mia moglie non vogliamo che venga chiamato eroe nostro figlio, avremmo preferito che non fosse mandato a morire e che potesse continuare a studiare, a giocare a calcio, a suonare la chitarra: a vivere”.

Lilith, la madre, ha gli occhi gonfi per le lacrime a stento trattenute e con una dignità rara e granitica, senza mai farsi sopraffare dal dolore, guarda sul telefonino un video di suo figlio che suona la chitarra, cercando in questo modo di riavvolgere il rocchetto del tempo e rivivere così, ancora una volta, un momento di vita con il suo ragazzo. ”Come posso dire che gli armeni sono buoni e gli azeri cattivi?” si interroga Karen che poi conclude: ”Posso soltanto dire che la guerra è un qualcosa di assurdo e di terribile…e permettetemi di mandare le mie più sincere condoglianze anche a tutti i padri e le madri azere. Perchè io so cosa vuol dire perdere un figlio in guerra”.

Sono i padri e le madri oggi a dover affrontare le conseguenze più dolorose della guerra: in alcuni casi il vuoto incolmabile per la perdita di un figlio, in altri la responsabilità di dover dare ai figli la speranza di un futuro che il conflitto invece sembra avere loro negato. In altri casi ancora l’inaggettivabile calvario di dover vivere ogni giorno senza avere alcuna notizia del proprio caro, disperso sulla linea del fronte durante i combattimenti.

A Stepanakert le strade son ghiacciate e un timido sole prova a riscaldare le prime ore della giornata. Angela e Nikolay Asryan, come ogni mattina, indossano i pesanti cappotti e si recano al palazzo presidenziale di Stepanakert per sapere se ci sono notizie di loro figlio Sasun di 31 anni, di cui nessuno sa più nulla da metà ottobre; scomparso durante gli scontri. Gli anziani genitori, a passo lento, si dirigono nella sede del governo e mostrando le foto di loro figlio chiedono a piantoni e funzionari se il presidente ha qualche informazione sulla sorte del ragazzo.

Nessuna risposta, ancora una volta un laconico ”non sappiamo nulla” e un burocratico ”se sapremo qualcosa vi faremo sapere” .Il padre e la madre ritornano, per un altro giorno ancora, verso casa, senza risposte e senza poter mettere fine ai propri incubi e ad accompagnarli soltanto una sacra pazienza del vivere incapace di cedere il passo al fatalismo e all’accettazione del dramma.

Gli anziani genitori continuano a guardare le foto e i video del ragazzo e la madre racconta: ”Mio figlio ero molto famoso in Shushi. Lui credeva molto nella sua terra, viveva a Shushi e amava andare a caccia, a pesca, a nuotare nel fiume, tante persone lo conoscevano” spiega la donna mentre cerca nella borsetta una foto e una medaglia al valore che suo figlio aveva ottenuto durante la guerra dei quattro giorni nell’aprile 2016. Sasun non era sposato ma aveva una fidanzata che ogni giorno mi chiama e mi chiede se ci sono sue notizie. E io continuo a dirle che non so nulla e allora parliamo di lui e io le dico che mi sarebbe piaciuto che avessero avuto dei bambini”.
C’è soltanto disperazione sul volto di Angela e Nikolay che si sono visti privare anche del più caritatevole ed elementare diritto che dovrebbe spettare ad ogni genitore colpito da un dolore tanto assoluto quanto assurdo: