L’esodo del Nagorno Karabakh
Fuga senza ritorno
Un esodo di migliaia di cittadini e case date alle fiamme per non lasciare i ricordi di sempre ai vincitori del conflitto: sono queste le immagini che hanno raccontato, meglio di tutte, la fuga di quasi 100mila persone dal Nagorno Karabakh pochi giorni prima della firma del cessate il fuoco.
Il fronte, nei primi giorni di novembre, era sempre più vicino a Stepanakert, la città di Shushi, lontana soltanto 8 chilometri dalla capitale, era cinta d’assedio e, nelle ore precedenti alla tregua, la gran parte dei cittadini dell’Artsakh abbandonava le proprie case e fuggiva in Armenia percorrendo il corridoio di Lachin.

“Eravamo in automobile, bloccati. Macchine e furgoni ovunque: davanti a noi, dietro di noi, ai lati; da tutte le parti. C’erano così tanti veicoli che si era formata una coda lunga chilometri“.

È così che Roubina Margossian giornalista di Evn Report, e che ha coperto il conflitto in Karabakh sin dalle prime fasi della guerra, ricorda quel momento divenuto una rappresentazione iconica della tragedia umanitaria che ha colpito il Karabakh. “La cosa più impressionante è stata vedere le colonne di fumo che si alzavano dalle case che la gente stava incendiando. È stato davvero scioccante. Non una casa, non due, ma decine di case e fattorie, lungo tutta la strada che dal Karabakh porta in Armenia, bruciavano. Uomini e donne stavano dando fuoco alle proprie abitazioni per non lasciare nulla ai soldati azeri. Un momento che mi ha lasciata attonita, un gesto estremo che è difficile da commentare: dare fuoco a ciò che di più prezioso si ha, al luogo dove sono conservati i propri ricordi, la propria vita affinché la sacralità del proprio passato, della propria storia non possa essere violata e oltraggiata da nessuno: è un gesto molto doloroso che fa comprendere meglio di tanti altri l’assurdità e la disperazione che le guerre provocano”.

Una strada immersa nella campagna armena conduce oggi da Yerevan ad Aparan dove vive Volodia Tadevosyan, cittadino della regione di Karvachar, uno dei distretti passati sotto controllo azero al momento della cessazione delle ostilità, che prima di abbandonare per sempre la terra dove è cresciuto ed è vissuto ha compiuto l’irremeabile gesto di dare fuoco alla sua casa e ai ricordi di sempre. “Dove ho trovato il coraggio di cospargere di benzina i muri di casa mia e poi dare fuoco a tutto? Dalla rabbia che c’è in me e dal fatto che era la sola cosa da fare per potere vivere ancora con una dignità”.

Sono frasi potenti, lapidarie e caustiche e Volodia proseguendo con il racconto spiega: “La casa dove vivevo è stata la casa che abbiamo costruito generazione dopo generazione mio nonno, mio padre ed io. Giorno dopo giorno, pietra dopo pietra. Non erano semplici muri quelli che formavano quella casa, erano il sudore, il sangue, i sacrifici e la storia di un’intera famiglia. Avevamo un orto, delle api, un piccolo terreno che lavoravamo tutti insieme…Potevo accettare che quella casa venisse oltraggiata, che dei soldati si facessero foto trionfanti e poi imbrattassero e distruggessero tutto? Potevo accettare e permettere tutto questo? No, ovvio che no. Dare fuoco a casa mia è stato estremamente doloroso, ma se non l’avessi fatto qualcuno avrebbe potuto violare la mia casa e la memoria dei miei genitori, e quello sarebbe stato molto peggio delle fiamme e io, difronte a un fatto del genere, non avrei più avuto alcuna dignità”.

È un presente scritto al passato remoto quello della famiglia di Volodia. Tutto sembra essere stato sepolto per sempre sotto un cumulo di cenere e macerie, e il futuro è un coacervo di incognite e interrogativi senza risposte. E lo stesso dramma di precarietà e paura lo vivono anche Alyona e Gagik, madre e padri di Maria e Lyova, di sette e cinque anni.

La famiglia è originaria di Hadrut e, a causa della guerra, è fuggita in Armenia e ora vive tra gli sfollati a Masis. I genitori erano entrambi professori, oggi la madre però fa la parrucchiera e il padre è disoccupato, ma ciò che preoccupa di più la coppia, molto più della precarietà economica e di aver visto tutti i loro sforzi e sacrifici andare in frantumi, è il futuro dei loro bambini.

“Mia figlia, Maria, un giorno ha fatto delle ricerche in internet e ha visto un video di soldati azeri che entravano nel nostro villaggio. Ha visto le immagini della casa distrutta ed è scoppiata in un pianto isterico che io non sono riuscita a fermare”. Confida Alyona, la mamma, che proseguendo aggiunge: “La guerra ha toccato i bambini. Anche se non hanno una piena comprensione di ciò che è successo comunque il conflitto li ha segnati. E quando mi chiedono chi sono gli azeri dico loro che sono persone come noi.

Quando mia figlia mi chiede perchè hanno rotto la sua bicicletta dico che non l’hanno rotta ma che stavano giocando e che quando torneremo a casa ne troverà una ancora più bella. Io e mio marito abbiamo tantissime incognite e paure per i nostri figli. Quale sarà il loro futuro?