
Cosa resta del Nagorno Karabakh
Un posto di blocco presidiato da soldati dell’esercito armeno e da forze di peacekeeping russe: è questo il confine tra l’Armenia e il Nagorno Karabakh. Non c’è più la piccola frontiera dove veniva apportato sul passaporto un visto d’ingresso nell’ autoproclamata repubblica dell’Artsakh. E sono state ammainate anche tutte le bandiere del Karabakh, in ogni dove si vedono garrire soltanto le insegne di Mosca e di Yerevan.
Dopo che il 9 novembre il premier armeno Nikol Pashinyan ha firmato l’accordo trilaterale di cessate il fuoco con Russia e Azerbaijan, il volto della regione contesa del Caucaso meridionale è cambiato per sempre. L’accordo, oltre a contemplare la restituzione a Baku dei sette distretti occupati dagli armeni al termine della guerra degli anni Novanta e il ritorno della città di Shushi sotto controllo azero, prevede anche il dispiegamento di una forza di oltre 2mila soldati russi, come contingente di pace con mandato quinquennale, lungo le principali strade dell’Artsakh. Sono i soldati di Mosca a controllare i passaporti, a decidere chi entra e chi esce, e sono loro ora a presidiare militarmente tutti i villaggi lungo la strada che conduce a Stepanakert.

A meno di dieci chilometri di distanza dalla capitale una deviazione porta alla storica città di Shushi, la Gerusalemme del Caucaso, fiorente centro culturale nel passato e simbolo di identità nazionale sia per gli armeni che per gli azeri. Dove la strada si inerpica e iniziano le curve che accompagnano alle mura della città vecchia oggi c’è un checkpoint, ci sono militari azeri e russi e sventolano due bandiere, quella dell’Azerbaijan e della Turchia, issate per ricordare sempre e per sempre, a tutti coloro che transitano per la principale arteria del Karabakh, chi sono i vincitori del conflitto. Le mezzelune svettano imponenti anche dai bastioni delle mura di Shushi, la mezzaluna della Sublime Porta e quella di Baku dominano le torri della cittadina e controllano la vallata sottostante dove, circondata da montagne, da forze di interposizione e truppe azere, ferita e imprigionata, compare Stepanakert.

Un ultimo checkpoint introduce nella capitale dell’Artsakah. I giorni dei bombardamenti sono un vivido e drammatico ricordo nel capoluogo che ora, lentamente, sta mettendo in scena un flebile ritorno alla vita. Parte della popolazione è rientrata nelle proprie abitazioni, il mercato cittadino, colpito dai razzi azeri durante il conflitto, ha riaperto e sui banchi sono riapparsi frutta e carne, gli scuolabus portano di nuovo i bambini a scuola e più di trecento edifici sono stati ricostruiti e riparati dai tecnici russi come previsto dalla trilaterale di Mosca dell’11 novembre. Ci sono ferite però impossibili da riparare e sono quelle che popolano i giorni e le notti delle migliaia di cittadini che hanno vissuto il conflitto sulla propria pelle.

Valeri ha 23 anni e durante la guerra è stato mandato a combattere sul fronte meridionale, ad Hadrut, dove è caduto in un’imboscata ed è stato catturato dai soldati azeri. Dopo 56 giorni in isolamento, durante uno scambio di prigionieri, è stato liberato ed è tornato a Stepanakert dalla sua famiglia. Nella sua casa, dove vive insieme ai suoi genitori, il giovane soldato racconta: “Dopo che sono stato fatto prigioniero sono stato portato in carcere. Non so dire esattamente in quale luogo mi trovassi perché per quattro volte sono stato trasferito e mi hanno tenuto sempre in una cella da solo, per tutto il periodo della detenzione”. Nei suoi occhi non c’è la gioia che ci si aspetterebbe di trovare in un uomo nel fiore dell’età che è appena stato liberato, c’è lo sguardo malinconico e fatalista di un anziano reduce che come orizzonte ha solo l’impietosa memoria dei supplizi passati.

Valeri non vuole addentrarsi in dettagli in merito a quanto ha visto e vissuto e conclude dicendo: “Non esistono parole per spiegare cosa ho provato quando il volo dei peacekeepers russi ci ha portati in Armenia. Ma se l’emozione per la mia liberazione è stata incredibile, allo stesso tempo non ho smesso un solo istante, da quando sono tornato, di pensare ai ragazzi che erano con me in prigione e continuo a chiedermi che ne sarà di loro e quando potranno riabbracciare i loro genitori”. In casa il padre apre una bottiglia di brandy per brindare a suo figlio, la madre, con le lacrime agli occhi, prima di alzare il bicchiere, confida che ancora non crede che suo figlio sia lì con lei ma che le preoccupazioni per ciò che lui ha vissuto continuano a tormentarla. Poi i bicchieri si sollevano, tintinnano, il cognac scalda la gola e strappa un sorriso a Valeri e ai suoi genitori; e per un istante gli incubi di ciò che è stato sembrano ritirarsi per lasciare spazio alla dolce e intima commozione di una famiglia di nuovo unita nella propria casa.
Ci sono genitori che però non vedranno mai più i loro figli. Non ci sarà mai più alcuna attesa e speranza, nessun brindisi e nessun abbraccio, soltanto un vuoto da colmare, se mai fosse possibile farlo, con ricordi e preghiere. Nella cattedrale di Stepanakert, la notte di Capodanno, centinaia di persone accendono ceri per tutti i giovani morti nella guerra dei 44 giorni. I genitori, i fratelli e gli amici depongono le foto vicino ai lumi e poi si dirigono al monumento dei caduti della capitale del Karabakh.