Ecco perché Hezbollah non teme la morte
Il cimitero di Rawdat al Hawra è cambiato. Fino a due mesi fa vi regnava un silenzio assordante, rotto soltanto dai canti delle preghiere dei mujahiddeen che venivano a rendere omaggio ai propri compagni d’armi caduti in battaglia. Le tombe riempivano soltanto la metà dello spazio disponibile. “Se tornerai tra un mese lo troverai tutto pieno” mi aveva detto un giovane combattente. Siamo a Dahyie, roccaforte di Hezbollah situata nella periferia meridionale di Beirut. In questo cimitero vengono sepolti i militanti rimasti uccisi lungo i fronti lungo i quali il Partito di Dio è impegnato a combattere. Che sono, principalmente, quello siriano e quello lungo il confine israeliano, dove le ostilità non si sono mai veramente arrestate nonostante un formale cessate il fuoco. Rispetto a due mesi fa l’atmosfera è molto cambiata: il silenzio ha lasciato spazio al rumore dei lavori di scavo che alcuni militanti portano avanti nella parte ancora libera del terreno. Dopo aver scavato delle profonde buche rettangolari nel terriccio prendono delle pesanti lastre di pietra bianca, che depositano al loro interno per formare le nuove tombe: per ognuna di esse è in arrivo una salma dalla Siria. Le lapidi delle tombe già occupate sono state spogliate degli oggetti che prima le ricoprivano. Al loro posto sono stati stesi dei tappeti verdi. “Sono persiani” mi dice Jamal, mujahiddeen che mi accompagna. “Ci sono stati donati dai soldati iraniani che combattono con noi in Siria. Sono oggetti sacri che servono a tenere lontana la polvere creata dagli scavi”. L’ultima tomba ad essere stata riempita mostra il volto di un ragazzo sorridente e senza barba, che imbraccia un kalashnikov. È strato ucciso durante una battaglia intorno ad Aleppo. Il tappeto che ricopre la sua lapide lascia intravedere solo la scritta della sua data di nascita: 04.07.1998.
I giovani mujahiddeen che nella notte vengono a salutare i propri compagni sono numerosi. Tutti con i capelli scuri e vestiti in maniera sobria e occidentale, si avvicinano al soldato che vogliono onorare, piegano la schiena, appoggiano tre dita sulla lapide e mormorano delle silenziose parole incomprensibili. Alcuni di loro sono accompagnati dalle proprie compagne, giovani ragazze che indossano un velo nero che copre loro i capelli. Una di loro estrae dalla borsetta una copia del Corano e la appoggia sopra uno dei tappeti. Altre due passano di tomba in tomba e le ripuliscono dalla polvere. Su una sedia di fronte ad una lapide siede Hamza, 23 anni. Capo ricoperto dal cappuccio di una felpa e piegato in avanti, occhi chiusi e auricolari nelle orecchie, muove le lebbra senza emettere alcun suono. Sentendomi arrivare si toglie il cappuccio, stacca gli auricolari, indica la foto che campeggia sulla tomba e dice: “Era un mio amico. Vengo a fargli visita ogni volta che sono scoraggiato”. Nonostante la luce della notte sia fioca le immagini in primo piano dei caduti che sovrastano le proprie lapidi sono più visibili e illuminate che mai. Guardando dritto negli occhi i propri compagni ancora in vita sembrano generare in loro un profondo legame emotivo. E creano il mito di se stessi. Alimentando il ricordo di chi si è sacrificato per la causa Hezbollah realizza la fusione tra se stesso e i propri mujahiddeen, che va ben oltre la mera appartenenza ad un’organizzazione armata. Il culto della morte, l’ostentata simbologia sacrale che è presente nei cimiteri, la cura meticolosa che riserva a chi è caduto genera una totale identificazione dei militanti nella missione del Partito di Dio. Uno scioglimento dei singoli nella totalità che li porta ad accettare la morte, consapevoli del fatto che se questa arriverà porterà loro le cure e la compagnia eterna di chi rimane in vita.
I soldati caduti di Hezbollah diventano dei martiri. Quelli ancora in vita hanno accettato la possibilità di poterlo diventare. “La vita non ha valore di per sè, quello che rimane è quello che si fa di essa” mormora dopo qualche attimo di silenzio Hamza, mentre guarda nel vuoto. Poi afferra una copia del Corano appoggiato di fianco alla sua sedia e la spinge verso il compagno caduto. “Vorrei chiedergli se fosse insieme a lui, ma non lo faccio. Penso invece a come questa guerra fratricida che sta insanguinando il mondo sia combattuta in prima fila dei ragazzi che, da entrambe le parti, accettano l’idea della morte”. Quasi leggendomi nel pensiero Hamza, togliendo lo sguardo dalla foto e rivolgendolo a me, dice: “La differenza tra noi e i takfiri (Isis e Nusra ndr) è che loro si fanno saltare in aria perché disprezzano la vita, dalla quale fuggono. Noi invece la vita la amiamo e siamo disposti a sacrificarci per difenderne il valore. Morire con dignità e per la giusta battaglia porta a miglior vita te stesso e chi rimane dopo di te. Accettare la morte è ciò che rende la vita più degna di essere vissuta. Vivere con dignità è ciò che ci fa rispettare la morte”. Mentre mi parla ci si avvicina un altro ragazzo e ci comunica la notizia. Le salme di sei nuovi martiri sono in arrivo dalla Siria. Sei nuove buche verranno occupate.