Quella missione italiana nel Paese più fragile d’Europa

Quella missione italiana nel Paese più fragile d’Europa

Il vento gelido rumoreggia nel piazzale. Sbatte contro le bandiere e i tendoni, poi contro le divise, disposte immobili e ordinate al centro della base. Nella zona industriale di Pristina risuona l’inno italiano. Come ogni mattina viene issata la bandiera tricolore e quella della missione Kfor, che vede impegnati i carabinieri dell’unità speciale dell’Msu.

Venti anni di missione

In quasi 20 anni la base italiana ha rappresentato uno dei fulcri delle operazioni militari in Kosovo. Alla fine dei conflitti etnici tra serbi ed albanesi era stata la risoluzione dell’Onu 12/44 a stabilire di inviare in questo territorio sconvolto dalle guerre una forza di interposizione con attività di peace keeping e peace enforcement. Prima bisognava pacificare il territorio e poi mantenerlo pacificato. E per la prima volta i carabinieri vengono inseriti tra le forze militari impegnate in una missione del genere, proprio per le loro peculiarità.

E se in passato è arrivata ad ospitare numeri ben più importanti, ospitando anche militari austriaci, polacchi e francesi, oggi la base italiana appare ridimensionata, con 160 uomini che vengono preparati ad ogni circostanza, dal controllo ai contesti più rischiosi. “Venti anni di storia sono lunghi – confessa il comandante dell’unità speciale dei Carabinieri in Kosovo Ruggiero Capodivento -, si sono avvicendati diversi comandanti e ben 6.500 carabinieri per tentare di dare stabilità a questo territorio”. Sono diversi gli obiettivi che l’Msu monitora nel Paese: “In particolare ci sono l’area di Pec e alcune enclave serbe in territorio a prevalenza albanese nel sud del Paese”.

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A Mitrovica, tra ponti e tensioni

Uno dei punti più sensibili del Paese è Mitrovica, città di 300mila abitanti a 500 metri di altezza, attraversato nel suo cuore dal fiume Ibar. Dista solo 40 chilometri dalla capitale, eppure si respira appieno l’atmosfera tesa che vive il Kosovo del Nord. Lì raggiungiamo le truppe dell’Msu impegnate in presidi fissi sul ponte di Austerlitz. Negli anni l’opera, prima distrutta e poi ricostruita dalla Nato, è divenuto il simbolo della spaccatura tra il nord e il sud di Mitrovica. Dopo la guerra la città fu infatti divisa in due parti: la parte meridionale, abitata quasi totalmente da popolazione di origine albanese (circa 60mila abitanti), e la parte settentrionale, con prevalenza di popolazione serba (circa 13mila abitanti).

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Quasi per ironia della sorte, quello stesso fiume che aveva dato i natali alle prime comunità preistoriche si è poi ritrovato a rappresentare il confine interno della sua stessa città. Così oggi Mitrovica ha ancora due sindaci, due diverse Istituzioni, due monete (a nord il dinar, a sud l’euro). La parte nord a maggioranza serba del capoluogo del Kosovo del Nord è sede di tutte le istituzioni serbe nel Kosovo che sono riconosciute dal governo di Belgrado ma non da quello secessionista kosovaro. Ed è un tripudio di bandiere, vessilli e stemmi serbi. “Vedi tutte quelle auto senza targa? Sono immatricolate in Kosovo, ma a Mitrovica nord le targhe kosovare sono vietate e quindi le persone sono costrette a rimuoverle”, dice il maggiore Francesco Di Costanzo.  

Parola d’ordine: fragile

E il ponte di Austerlitz? Dopo essere stato ricostruito, è ancora lì, chiuso al traffico. Agli ingressi c’è un presidio 24 ore su 24 dei carabinieri, ora coadiuvati dalla polizia locale. “La situazione è calma ma estremamente fragile”, si limita a dire il maresciallo impegnato nel presidio. Ed è così fragile che proprio la notte prima qualcuno aveva rivendicato su un muro l’appartenenza serba dell’area. Non è chiaro perché il ponte, ormai pronto, sia ancora chiuso. Sicuramente sono in molti a volerlo ancora inaccessibile, a monito della spaccatura etnica e fisica di Mitrovica. Forse “fragile” è proprio l’aggettivo che più si addice per descrivere il contesto socio-politico del Kosovo. A tenere alta la guardia su ciò che quotidianamente si muove in uno degli Stati più enigmatici dei Balcani sono proprio i militari italiani. Pochi giorni dopo il nostro arrivo alcuni carabinieri lasciano il Paese e ritornano in Italia tra abbracci e lacrime, testimonianze di legami stretti durante la missione. Ma per alcuni che tornano, altri arrivano a prestare servizio in un Paese ancora profondamente instabile.