Kosovo, indipendenza senza pace
Rosso, nero, blu, bianco. I colori delle facciate di piccole aziende si mescolano senza armonia lungo le strade in eterna manutenzione nella periferia di Pristina. Oggi il nucleo economico e sociale del Kosovo appare come una capitale balcanica tra tante, in cui l’insediamento di nuove realtà a gestione familiare si intreccia con l’improvvisazione e lo spirito di necessità della popolazione, in un’atmosfera di ordinata anarchia.

A quasi venti anni dalla fine di un conflitto mai sopito e che ha messo al centro tutte le ambizioni geopolitiche dei Paesi impegnati, il Kosovo appare ancora fragile e povero, con una qualità della vita molto bassa, un salario medio di circa 360 euro e con una disoccupazione al 30%. E se nella emergente ma frizzante movida i locali notturni in voga sono sempre più richiesti e affollati da giovani ( il 53 per cento della popolazione ha meno di 25 anni, è il più giovane Stato europeo), baracche e abitazioni di fortuna si fanno spazio tra la steppa e il grigio cemento dei logori margini di Pristina. È l’esaltazione di una frattura sempre più ampia tra i più agiati e le fasce deboli. La precaria quotidianità della città è scandita in un contesto di relativa quiete, eppure solo apparente. La guerra del 1996-1999 ha lasciato ferite profonde e le insofferenze etniche tra albanesi e serbi in Kosovo sono passate dalla rivendicazione autonomista a quella indipendentista, fino ad arrivare al reclamo di territori odierno per superare parzialmente distanze geopolitiche più che etniche.
Così, ogni anno si registrano morti e feriti a causa di scontri in piazza o regolamenti di conti. Nonostante le 2.500 vittime civili del conflitto, nonostante le migliaia di persone i cui corpi non sono mai stati ritrovati. Viene definito “frozen conflict”, perché le tensioni sono soltanto latenti. Sono trascorsi esattamente dieci anni dalla dichiarazione d’Indipendenza del Kosovo, proclamata il 17 febbraio 2008, dopo dieci anni in cui il paese è stato amministrato da un protettorato internazionale delle Nazioni Unite. A spiegare la situazione che vive il Paese è il generale Salvatore Cuoci, comandante delle forze Nato impegnate in Kosovo dal 1999 con la missione Kfor e a capo di circa 4mila soldati provenienti dagli eserciti di tutto il mondo.

“Proprio in questi mesi la situazione interna è molto delicata, sia dal punto di vista sociale, ma soprattutto dal punto di vista politico, con situazioni fragili anche nei rapporti tra gli stessi partiti”, sottolinea Cuoci. Oggi il Paese è riconosciuto da 115 nazioni, ma tra chi l’ha sempre rifiutato ci sono – oltre alla Serbia – anche cinque membri dell’Unione europea: Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro. Ma perché un Paese come la Spagna rifiuta di riconoscere il Kosovo? “I motivi vanno ricercati nello scenario attuale che vive la Spagna con la vicenda della Catalogna. Vi sono delle similitudini con il caso del Kosovo che potrebbero creare dei precedenti”.

Ancora oggi la presenza della Nato e delle forze straniere è testimoniata da una costellazione di simboli disseminati in tutto il Paese nel corso degli ultimi 20 anni. Per alcuni si tratta di una vera e propria colonizzazione, per altri è il segno di un aiuto necessario e confortante. Proprio nel centro di Pristina esiste “Bill Clinton Boulevard”, con una statua dell’ex presidente degli Stati Uniti voluta nel 2009 dagli albanesi del Kosovo per ringraziare dell’aiuto nella loro lotta contro il governo della Jugoslavia. E anche a Prizren, città a sud del Paese a prevalenza albanese, i segni del periodo post-bellico sono evidenti; qui, ad esempio, è stato realizzato un vero e proprio memoriale della Nato con un imponente monumento incastonato in una base con la forma geografica del Kosovo, al centro di una piazza ricoperta di vessilli dell’organizzazione internazionale.

D’altronde il Kosovo rimane ancora oggi un’area fortemente strategica per più attori sul panorama internazionale. Ne è una testimonianza architettonica in evoluzione la smisurata ambasciata che gli Stati Uniti stanno tuttora costruendo a Pristina. Un’imponente struttura pressoché inedita in qualsiasi capitale occidentale per dimensioni e livelli di sicurezza. Ma anche l’Italia – che in Kosovo ha uno dei più numerosi e attivi contingenti internazionali, con una propria base della Multinational Specialized Unit dei carabinieri – continua ad avere interessi in terra kosovara, come rileva lo stesso generale Cuoci: “Io sono il quarto comandante italiano consecutivo a capo di Kfor, e ce ne sarà un quinto. Questo testimonia il ruolo di prestigio che l’Italia ricopre in questa missione”.