Il futuro sospeso dell’Armenia

Il futuro sospeso dell’Armenia

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“Quando mi sono voltata e ho salutato i miei genitori, solo in quel momento ho capito che forse quella sarebbe stata l’ultima volta che li avrei visti”. Jasmine Avetisyan ha 18 anni, è originaria di Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, il nome con cui i cittadini armeni chiamano il Nagorno Karabakh. Jasmine oggi si trova a Yerevan per poter compiere il suo percorso di studi universitari ed è riuscita a raggiungere la capitale dell’Armenia solo da poche settimane dal momento che dal 12 dicembre il Nagorno Karabakh è stato isolato dal resto del mondo dalle forze dell’Azerbaijan che hanno istituito un checkpoint illegale nel corridoio di Lachin, l’unica via che mette in comunicazione l’Armenia con il territorio dell’Artsakh.

Per oltre nove mesi i cittadini armeni del Nagorno Karabakh hanno vissuto isolati e, a causa dell’interruzione della strada da parte delle forze dell’Azerbaijan, non hanno potuto ricevere neppure cibo e medicinali e solo negli ultimi giorni gli è stato concesso di poter lasciare il loro territorio senza però aver la possibilità di farvi ritorno.

“All’inizio, quando abbiamo appreso che era stato istituito il checkpoint pensavamo che la situazione sarebbe durata poco, credevamo si trattasse di una forma di pressione politica destinata a esaurirsi in breve tempo. Poi però il presidio degli attivisti azeri è stato sostituito da un posto di frontiera permanente e le merci non hanno più potuto entrare in Karabakh, allora, in quel momento, abbiamo iniziato a renderci conto che la situazione stava davvero divenendo grave. Nessuno però poteva immaginare che un Paese potesse arrivare ad utilizzare la fame come arma”.

Durante il periodo del “blockade”, come è stato ribattezzato dalla stampa internazionale, gli oltre 120mila cittadini armeni della regione del Caucaso meridionale si sono trovati in una situazione di assoluta incertezza e precarietà. In questi mesi, nel web e sui social, immagini di scaffali vuoti, mercati deserti e file interminabili di uomini, donne e bambini in attesa di un tozzo di pane fuori dai forni pubblicate dai residenti dell’Artsakh hanno mostrato, in tempo reale, cosa significasse vivere nel 2023 sotto assedio e senza cibo. Ma, nonostante l’evidenza e il supporto delle principali organizzazioni di diritti umani come Human Rights Watch, Amnesty International, l’International Court of Justice che hanno condannato l’Azerbaijan e chiesto l’immediata apertura del corridoio di Lachin, nulla è stato fatto affinchè venissero rispettati i diritti dei cittadini armeni. Anzi, la situazione si è deteriorata ulteriormente sino ad arrivare nelle ultime ore all’aggressione militare da parte di Baku ai danni del Nagorno Karabakh.

“Quando sono arrivata a Yerevan ho sentito un enorme peso dentro di me. Un forte dolore per aver lasciato la mia famiglia in un territorio accerchiato e senza cibo. A 18 anni ho dovuto scegliere tra la mia famiglia o lo studio. E ho fatto questa scelta perché so che se diventerò una brava professoressa e mi impegnerò nell’apprendimento, presto potrò aiutare la mia terra perché credo che la conoscenza sia davvero l’ arma più importanti di un popolo”.

Era con queste parole, un sorriso timido e gli occhi smarriti in una scelta troppo pesante da sopportare a 18 anni che Jasmine, solo pochi giorni fa, si congedava prima di dirigersi, con altri suoi coetanei dell’Armenia e dell’Artsakh, a manifestare sotto l’ambasciata russa a Yerevan per chiedere un maggior intervento dei peacekeepers di Mosca a difesa della popolazione dell’Artsakh. Oggi il suo telefono squilla a vuoto, ai messaggi non risponde ed è impossibile anche solo provare a immaginare cosa stia vivendo in queste ore mentre si trova a Yerevan e missili e bombe travolgono la sua città natale dove vive la sua famiglia.

Anche domandarsi se può esserci ancora una speranza in cui credere, un sogno in cui rifugiarsi, un’utopia da rincorrere dopo che si sono vissuti centinaia di giorni di fame e assedio e dopo che artiglieria, droni e aviazione hanno bombardato per 24 ore la tua terra, costa caro. Perché pretende di accattare l’evidenza che la violenza ha trionfato sul dialogo e l’arbitrio sul diritto.

Il 19 settembre l’esercito di Baku, adottando come casus belli la morte di alcuni cittadini azeri in seguito all’esplosione di alcune mine nel territorio del Karabakh, ha attaccato il territorio conteso dichiarando che l’offensiva si sarebbe arrestata soltanto quando le truppe armene dell’Artsakh si fossero arrese consegnando le armi. Dopo 24 ore di pesanti bombardamenti con artiglieria, droni e aviazione e decine di morti, il governo dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh ha accettato la resa. E mentre arrivano immagini di civili che si sono radunati sulla pista dell’aeroporto di Stepanakert per cercare di fuggire in Armenia, intanto si attendono notizie relative alle condizioni che dovranno firmare i rappresentanti del governo armeno. Una firma che sembra dover mettere fine per sempre alla storia della Repubblica dell’Artsakh e forse anche alla presenza secolare degli armeni nel Caucaso meridionale. 

“È la nostra storia di armeni a farci vivere queste ore con enorme apprensione e paura. In passato abbiamo già vissuto tragedie simili e adesso il rischio è che nel territorio del Karabakh ogni singola traccia della cultura e della storia armena venga distrutta”. L’archimandrita Garegin Hambardzumyan, da Etchimiadzin, il cuore della Chiesa apostolica d’Armenia, manifesta enorme preoccupazione per quanto sta accadendo e mette in guardia il mondo su una possibile cancellazione della storia armena nelle regione del Caucaso meridionale: “Quando oggi qualcuno dice che nel Nachicevan non ci sono mai state tracce di una presenza armena, sbaglia. Non sa che in Nachicevan ogni singolo monastero, ogni chiesa, ogni croce è stato distrutto dopo che il territorio è passato sotto controllo azero. E il rischio è che anche in Artsakh possa accadere la stessa cosa”.

A Yerevan in queste ore una folla di cittadini sta manifestando in Piazza della Repubblica e invocando le dimissioni del premier Nikol Pashinyan accusato di aver abbandonato i residenti dell’Artsakh e aver perseguito un’agenda di politica estera che ha isolato e indebolito il Paese. A poche centinaia di chilometri dalla capitale invece la popolazione vive trincerata nella paura che il conflitto possa estendersi e coinvolgere anche la Repubblica d’Armenia. 

“Il confine con l’Azerbaijan è solo a due chilometri da dove viviamo noi. L’anno scorso, l’11 settembre, c’è già stata una guerra, l’esercito azero ha occupato parte del territorio dell’Armenia e noi siamo stati bombardati: cosa ci può garantire che ciò non avvenga di nuovo?”. Susanna Mandelyan vive insieme a suo padre nel villaggio di Sotk. Terra contadina, bruciata dal sole e dal vento dove i campi ostentano la messe come un inganno. Una scuola, un municipio su cui ancora sono impressi i segni lasciati dai colpi dell’artiglieria e poi un alternarsi di case di pietra: alcune distrutte, altre per pura sorte intatte ed altre con un tetto rosso di lamiera ad indicare, come un marchio del dolore, quelle che sono state colpite dai bombardamenti e che sono andate in fiamme. 

Dopo aver perso la sua abitazione Susanna e suo padre si sono trasferiti in un alloggio provvisorio: “Prima della guerra la vita era bellissima. Avevamo l’elettricità, l’acqua corrente, il gas e il lavoro, giorno dopo giorno, dava frutti meravigliosi. Poi è arrivata la guerra, la gente ha venduto gli armenti, molte case sono state distrutte e abbandonate e adesso, non abbiamo più niente se non la paura e l’incertezza”. 

Rimangono in silenzio Susanna e suo padre Arsen che, dopo aver aspirato lentamente alcune boccate di sigaretta e aver sorseggiato un thè amaro ,aggiunge soppesando ogni singola parola: “ho abbastanza anni per dire che il più grande dramma per un uomo non è aver paura di morire ma aver paura di vivere. E oggi noi armeni stiamo vivendo questo tipo di paura. La più brutale che ci sia”.