La propaganda del Califfato

La propaganda del Califfato

Vivere due anni e mezzo sotto un regime di terrore non è cosa da poco. In un periodo così lungo è possibile cambiare molte cose. Ed è quello che ha tentato di fare lo Stato islamico: attraverso una campagna di propaganda ha cercato di inculcare alle persone la sua ideologia, creata su principi storici ma anche basata su semplice fanatismo.

Principi storici perché, anche se paradossale, il Califfato si è appropriato di alcune ideologie espresse da personaggi vissuti nel passato. Filosofi e religiosi dell’islam che hanno interpretato il Corano, la Sunna o altri testi sacri secondo una propria versione, talvolta violenta e estrema. L’esempio più lampante è Ibn Taymyya, famoso giurista e filosofo vissuto fra il XIII e XIV secolo nell’attuale regione del Levante. Le sue idee, appartenenti alla corrente filosofica di Ibn Hanbal (e il susseguente Hanbalismo), sono divenute un pilastro per il salafismo, il wahabbismo e il jihadismo fino ai giorni nostri.Durante l’occupazione dei territori quindi, l’Isis ha usato un certo tipo di propaganda storico-religiosa per giustificare le sue azioni. Difficile è sapere esattamente dove si possa trovare ogni passo dei testi ai quali si riferiscono, ma la rivista Dabiq, pubblicata regolarmente dallo Stato Islamico, porta molti versetti contenenti dichiarazioni di religiosi che potrebbero in parte spiegare quello che per molta gente è solamente pazzia. Tuttavia bisogna dire che non è corretto attribuire solamente alla storia tutti gli atti commessi dalle bandiere nere.Per capire in maniera concreta cosa ha fatto lo Stato islamico per propagandare la sua ideologia, è interessante osservare alcune regole introdotte o semplicemente alcuni cambiamenti fatti all’interno della città, del programma scolastico oppure nelle leggi civili.

Entrando nella parte recentemente liberata della città di Mosul, si possono immediatamente notare i segni lasciati. I cartelli stradali non sono ancora stati cambiati e portano ancora i nomi dati dai terroristi alle regioni irachene (le regioni, nel Califfato storico, si chiamavano “uilaiat”, ovvero “stato” con connotazione religiosa), le bandiere imperversano ovunque e i cartelloni propagandistici risaltano per il loro orribile fascino. Orribile per il messaggio espresso, ma bellissimi per la tecnica artistica. Ad esempio, un graffito scoperto dopo la liberazione di un quartiere orientale di Mosul riporta un versetto religioso che esplicitamente dichiara la promessa del Profeta Maometto di conquistare Roma (“Invaderemo Roma, il Profeta l’ha promesso” cit.). Il graffito rappresenta un soldato di Daesh che minaccia il Colosseo con un coltello insanguinato. Senza soffermarsi sul senso del cartellone, l’arte di fare propaganda è sicuramente un’abilità dei terroristi. Di fianco a questo poi, si possono trovare altri graffiti riportanti messaggi di propaganda su altri temi (ad esempio “vinceremo” contro la coalizione internazionale” oppure “chi non paga la Zakkat, una specie di tassa riconosciuta dall’Islam come uno dei 5 pilastri, verrà punito”).Ma non ci sono solamente graffiti. Per la città girano anche molti foglietti, buttati a terra come se fossero comuni volantini informativi. Osservandoli bene, si può notare come esortino la gente a pagare la Zakkat. Una delle immagini raffigura un soldato dello Stato Islamico che minaccia una famiglia, entrando nella loro casa e spaventandoli a morte.Oltre a disegni professionali (bisognerebbe chiedersi come si siano avvalsi di tutte queste conoscenze), si può passare a video inediti di propaganda, talmente perfetti da invogliare anche il più restio ad arruolarsi. Uno studio preciso è sicuramente stato fatto, e probabilmente da esperti del settore.

Entrando in molte case che sono state usate come arsenali durante l’occupazione, si possono trovare molti cimeli. Ad esempio, un messaggio alla popolazione firmato da Abu Bakr Al-Baghdadi che discolpa l’Isis da ogni forma di violenza ed esorta la popolazione a rispettare i miliziani, seguire il loro esempio e assicurando che non è loro intenzione fare del male. Oltre a semplici fogli, si possono trovare anche libri di preghiera e di dottrina religiosa, raffiguranti lo stemma della “tipografia dello Stato Islamico”.La tipografia dello Stato islamico, oltre a creare libri di preghiera, ha cominciato a pubblicare anche i libri di scuola. Questo è stato confermato da molti bambini che hanno dovuto partecipare alle lezioni tenute dai miliziani e che ricordano cosa gli era insegnato. Durante la lezione di matematica, per citare un esempio, si imparava a fare i calcoli ripetendo la frase “un proiettile più un proiettile uguale, se Dio vuole, a due proiettili”. Le classi erano divise fra ragazzi e ragazze (così come all’università). Gli uni imparavano a sparare e a montare un’arma, mentre alle altre veniva insegnato come mettere il velo (Hijab o Khimar a dipendenza).Parlando invece di propaganda a livello legislativo, sotto il controllo dell’Isis c’erano delle regole ferree, che i terroristi facevano rispettare a suon di frustate, taglio di mani, teste o impiccagioni. Erano proibiti i jeans, il fumo e il calcio, per citarne solamente alcuni. La barba bisognava tenerla lunga (molte persone se la sono tagliata come segno di libertà non appena il loro quartiere è stato riconquistato). I pantaloni o la Jallaba (tipico vestito arabo) non potevano essere più bassi delle caviglie e si era obbligati a pregare 5 volte al giorno e andare in moschea il venerdì. Se si era per strada, poi, si era automaticamente obbligati a osservare le esecuzioni, molto frequenti. Ogni segnale sospetto poteva mettere a repentaglio la propria vita. Le proibizioni e regole più comuni erano queste, tuttavia moltissime erano in voga, ad esempio l’obbligo per le donne di uscire accompagnate o il divieto di andare al cimitero per visitare i propri defunti (nessuno, secondo la dottrina, potrebbe stare vicino a una tomba, nemmeno una lapide, perché le anime dei morti sono più elevate).

L’intolleranza verso l’occidente ha avuto un simbolo particolare: ogni immagine raffigurante una donna oppure semplicemente un cartone animato americano era coperta di nero in faccia. Un chiaro segno di rigetto verso l’invasore straniero.Con tutte queste misure (ma se ne potrebbero citare molte altre), lo Stato islamico ha tentato di creare un proprio apparato statale, una propria moneta e un proprio codice di leggi, cercando di convincere la popolazione a seguire la propria ideologia. In pochissimo tempo sono stati capaci di costruire fabbriche di bombe, di trasformare un laboratorio chimico dell’università in fabbrica di armi chimiche, di creare nuove facoltà universitarie e di utilizzare edifici appartenenti allo stato iracheno per stabilirci arsenali o nuovi “ministeri”.Il museo di Mosul ad esempio, famoso per il suo patrimonio culturale proveniente dalle rovine delle antiche capitali assire (Nimrod e Niniveh), è diventato il centro della tassazione e stazione dei taxi, secondo le voci della popolazione. Infine molti monumenti sono stati distrutti, perché considerati idolatri e inconcepibili per l’Islam. Siti archeologici di valore incalcolabile sono stati vittime delle ruspe del Califfato, che ha creato un danno irreparabile al patrimonio culturale dell’umanità.Ci si può quindi domandare: si potrà mai intravvedere un briciolo di ragione in tutto questo? Concentrandosi solo sul significativo caso dei monumenti, si potrà mai giustificare un tale atto? E ancora, perché l’islam, vecchio di 14 secoli, non ha mai messo a ferro e fuoco prima del ventunesimo secolo nessuno di questi siti? Le domande sorgono spontanee. Forse non è tutto giustificabile con la ragione.