Così vivono i cristiani scampati a Isis

Così vivono i cristiani scampati a Isis

Nei tempi moderni, il purgatorio ha il volto di un centro commerciale abbandonato. Come quello dell’enorme shopping mall che si affaccia sulla piazza principale di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. La massa scura scintillante di marmi e acciai cromati tradisce lo sfarzo tutto arabo delle costruzioni abbandonate improvvisamente per mancanza di denaro.

Al primo e al secondo piano, vetrine illuminate e abiti sgargianti. Dal terzo al quinto piano milletrecento fantasmi senza nome, dimenticati da tutti. Sono le famiglie cristiane fuggite dall’Isis nell’agosto 2014, quando le orde del Califfato hanno invaso l’area di Mosul e della piana di Ninive, nel nord-ovest dell’Iraq. Arriviamo al centro commerciale quasi per caso, dopo una cena nel bazar di Erbil in compagnia di padre Jalal Yako, il prete di Qaraqosh che vive con gli sfollati cristiani in uno dei tanti campi profughi della città. Mentre passeggiamo all’ombra dei bastioni ottomani veniamo fermati da due uomini ben vestiti che salutano il sacerdote con deferenza ed affetto: “Abuna Jalal – sorridono vedendo il prete – Venga a bere il tè con noi.” Cinque minuti dopo ci ritroviamo a salire le scale anti-incendio di un grande centro commerciale: dopo un paio di pianerottoli affollati di pacchi di merce e bancarelle coperte per la notte, al terzo piano ci accoglie un vociare di bambini e un odore pungente di cibo. Qui i pavimenti di marmo sono disseminati di giocattoli, alle pareti lunghe file di panni sono stesi ad asciugare. Negli sterminati corridoi si aprono lunghe file di porte, ciascuna affacciata su un piccolo appartamento. Ogni loculo ospita almeno una dozzina di persone, sistemate in poche stanze. A ridosso dell’ingresso, un fornelletto a gas in precario equilibrio con una pentola bruciacchiata piena di verdure. Dietro una coperta tirata a mo’ di tenda, qualche materasso buttato per terra: l’imitazione d’un letto. Sul soffitto larghe chiazze di umidità si allargano in macchie verdastre che increspano la carta da parati.

In tutti gli appartamenti, nessuno escluso, immaginette della Vergine o dei Santi, icone di Cristo e rami d’ulivo benedetto adornano le pareti. “Queste persone sono qui da un anno e mezzo – spiega padre Jalal – Il palazzo appartiene a un ricco cristiano di Erbil, che permette ai profughi di abitarci senza pagare l’affitto.” Il prete ci conduce a fare un giro degli appartamenti, dove viene accolto con caramelle e benedizioni. I ragazzini mostrano orgogliosi le magliette delle squadre di calcio europee, mentre le donne più anziane portano con fierezza il costume tradizionale dei villaggi che hanno abbandonato. A un capo del corridoio del quarto piano i fedeli hanno allestito una sorta di cappella: un tappeto col volto della Vergine alla parete e un semplice altare di legno illuminato dalle luci al neon. Tre vecchi seduti in cerchio recitano il Rosario in un angolo. Terminata la preghiera, restano al loro posto a chiacchierare placidamente. Portano il cappello in testa, sognano di essere ancora nella piazza del paese da cui sono stati cacciati. Ogni mattina, prima che i negozi del mall aprano, gli uomini escono in cerca di un lavoro; con loro si incamminano molti dei bimbi che frequentano le scuole allestite per i figli dei rifugiati. “Purtroppo quasi nessuno viene a visitare questo posto – scuote la testa Jalal – E io non so perché…” Effettivamente, quando chiediamo spiegazioni al segretario di monsignor Warda, l’arcivescovo caldeo di Erbil, la reazione è brusca: “Non è sicuro visitare quel posto, nessuno vi doveva condurre laggiù”, sbotta il mattino seguente alla nostra visita. Quindi borbotta oscure insinuazioni sull’onestà del proprietario del centro commerciale, rifiutandosi apertamente di condurvi i due vescovi italiani al seguito della missione organizzata da Aiuto alla Chiesa che soffre. “Voi fare quello che volete, io lì non vi porterò mai”, chiude la questione. Alla fine i vescovi non visiteranno il centro, dirottati verso un altro campo profughi, ma le immagini e i filmati restano. Per provare a dare un nome a tante storie, che altrimenti rimarrebbero anonime come i tanti manichini senza volto che popolano i piani inferiori del centro commerciale. Quello pieno di luci, aperto ai clienti e al loro denaro

Foto e video di Gabriele Orlini