L’esodo di Ghouta

L’esodo di Ghouta

(Hamoryah) È un fiume in piena.  Sgorga dalle rovine, si fa largo tra le macerie, sprofonda nei crateri di missili e granate. Risale spingendo bimbi in lacrime, piegati sotto il peso di zaini stracolmi. Trascina vecchi smunti ed emaciati aggrappati alla vita e alle grucce. Sospinge donne incinte coperte di nero e fatica, ripiegate su pancioni ormai troppo pesanti. Rimorchia feriti e malati appoggiati su carriole mosse a braccia in questa gruviera di distruzione. È l’esodo. È la fuga. È la fine della loro guerra. Quanti saranno? Cinquemila? Ottomila? Quindicimila? Chi lo sa è bravo.

Il numero vero forse non lo scopriremo mai. Di certo sono tanti. Tantissimi. Arrivano tutti da Hamoryah,  la cittadina della Ghouta orientale  controllata dai militanti della cosiddetta Legione Rahman. A parole era uno dei gruppi ideologicamente meno estremisti all’interno di quell’oceano islamista e jihadista che da sei anni controllava le campagne, i villaggi e le fattorie di questo immenso sobborgo orientale di Damasco abitato da 400mila civili.

Ma quell’immagine di forza laica strutturata principalmente su base militare ha poco a che fare con la realtà. Nei fatti  la Legione Rahman è  da sempre uno stretto alleato di Tahrir al Sham, l’alleanza guidata da Jabhat Al Nusra che rappresenta la coalizione delle forze legate ad Al Qaida. E con  Al Qaida  ha collaborato e combattuto per mantenere il controllo di Hamoryah e dei villaggi circostanti.

Tutto è finito mercoledì notte quando l’offensiva lanciata dall’esercito siriano, con l’appoggio dell’aviazione e dei militari  russi ha investito il villaggio da due parti. Non è stata una battaglia da poco. Per capirlo  basta guardare  il deserto che ci circonda.

Nel mare di distruzione intravvedi i segni della battaglia più recente. Una battaglia che non è ancora terminata. L’artiglieria e i mortai dei governativi continuano a far fuoco da tutto attorno. E dalle linee dietro Hamoryah piove ogni tanto qualche colpo di mortaio da 80 che fa tremare il  terreno e sobbalzare la marea di fuggitivi. Mentre qui ancora si combatte, loro  attendono sui camion. Ad ogni esplosione  le donne in nero  si stringono la testa  fra le mani,  nascondono quella  dei bimbi nel grembo.  “Non  ci siamo accorti di niente – racconta  Ibrahim, 45 anni  – mercoledì sera  siamo andati a dormire in cantina  come sempre,  ma all’improvviso nella notte ci siamo accorti che i terroristi non c’erano più. Poi abbiamo saputo che l’esercito siriano ci aspettava allora siamo usciti, ci siamo fatti coraggio e ci siamo messi in cammino. Piano piano abbiamo raggiunto questo corridoio. Adesso attendiamo di venir portati in  un centro di accoglienza. Vogliamo solo  un po’ di cibo e un po’ di pace. Per sette anni abbiamo visto solo la guerra. Per sette anni siamo stati vittime dei terroristi”.

È strano ascoltare  Ibrahim. È strano  guardare questa distesa di donne coperte di nero dalla testa ai piedi attendere la salvezza offerta dall’esercito di Bashar  Assad. Fino a ieri vivevano sotto il controllo della Legione Rahman e della coalizione alqaidista, oggi sono pronti ad acclamare l’esercito siriano.

Jallal, 32 anni, come le altre migliaia di  disperati parcheggiati in questa surreale retrovia giura di essere sincero. “Cosa avresti fatto al posto nostro? Ad Hamoryah c’erano le nostre case, la nostra terra, i nostri animali. Quando i gruppi armati hanno preso il controllo della zona non sembravano così terribili. Solo dopo  ci siamo accorti di chi erano e di quel che ci chiedevano”. Accanto a Jallal c’è Ibrahim, un altro contadino di Ghouta. Alza al cielo suo figlio Saleh, un fantoccino di sette mesi intabarrato in un pigiamino rosso coperto di buchi e di macchie.

“Guardate, guardate con i terroristi non avevamo neanche il latte per dargli da mangiare. Ora l’esercito ci ha liberato. Ora finalmente siamo liberi. Credetemi nessuno voleva restare  ad Hamoryah. Fino ad oggi eravamo prigionieri. I militanti  dei gruppi armati non ci lasciavano scappare. Siamo contenti di esser riusciti a raggiungere questo corridoio. Siamo felici di essere nelle mani dell’esercito siriano”.

Gli chiedi come mai sua moglie, sua madre le sue sorelle e tutte le altre donne trascinate da questa marea umana siano coperte di nero dalla testa ai piedi. Come mai in questi sette anni a nessuno di loro sia mai venuto in mente di scappare,  di raggiungere i territori governativi. “Seguivamo la loro legge, facevamo quel che ci dicevano. Non potevamo rifiutare, non potevamo scegliere amico. Chi si rifiutava finiva in galera o peggio”, si giustifica Ibrahim, passandosi il dito indice sotto la gola.

“Tu sei italiano, non puoi nemmeno immaginare cosa fosse la vita ad Hamoryah.  Ma ora siamo liberi. Ora possiamo anche chiamarli terroristi”. Un ufficiale dell’esercito ascolta e sorride. “Forse alcuni  di questi fino a poche ore fa erano pronti a spararci addosso, ma adesso poco importa. Se erano dei  capi, se hanno del sangue sulle loro mani lo scopriremo perché le loro telefonate sono state ascoltate per anni. Se invece erano dei semplici simpatizzanti o dei civili innocenti allora ci metteranno poco a capire che la vita nelle zone del governo è assai migliore”.