“Ecco il grande esodo: cosa succede lungo la frontiera tra Polonia e Ucraina”

“Ecco il grande esodo: cosa succede lungo la frontiera tra Polonia e Ucraina”

Parto con un volo all’alba per Cracovia, in Polonia, e all’arrivo sento che l’aria è subito cambiata. A partire dalla mia: la compagnia aerea ha perso i miei bagagli e mi ritrovo con uno zainetto con all’interno un carica batterie, un computer, una tavoletta di cioccolato e scontrini di cose acquistate chissà dove e mai buttati via. Ma arrivato qui mi rendo conto di non essere l’unico con i coglioni girati.

Mi lascio dietro i sorrisi distesi di un’Italia convinta di essere finalmente uscita vittoriosa dalla pandemia, e arrivo qui dove invece la paura sembra non essersene mai andata. La prepotenza di Putin spaventa anche i polacchi. D’altronde come biasimarli, la loro è una storia sciagurata, vittime e carnefici il secolo scorso, contesa ad ogni conflitto e sempre in bilico tra il nostro mondo, l’occidente, e quello del Patto di Varsavia. Certo, la Polonia ha scelto, ha espresso il proprio desiderio di voltare le spalle alla Russia e di incamminarsi verso un futuro diverso, ma sa perfettamente che l’equilibrio è sottile e che le certezze, in fondo, non esistono. “Certo che ho paura della Russia” – mi dice un tassista – “questo paese ne ha viste troppe. Non possiamo fingere che vada tutto bene. Oggi è l’Ucraina, e domani?”. Gli chiedo di farmi scendere alla stazione MDA di Cracovia, lui mi chiede dove sia diretto e io gli rispondo che sto andando in Ucraina. Lui sgrana gli occhi, guarda i soldi che gli ho appena passato, si blocca e decide di farmi lo sconto sul resto. Io protesto, ma niente, insiste che è giusto così. Avrà pensato che fossi un soldato italiano disposto a combattere in Ucraina mi dico. Ma come? Peso 65 kg, porto gli occhiali e ho troppe occhiaie per essere uno in forma. Non resisto: “Guardi che non sono un soldato, sono un giornalista – “Ahhh…” – risponde.

Si è palesemente pentito di avermi fatto lo sconto. Lo saluto e corro dentro la stazione. Il mio primo autobus è stato cancellato, troppo traffico al confine, il mezzo non riesce a passare. Compro un secondo biglietto, partenza prevista per le 17:30. Ma anche questo, dice la signora alla biglietteria, verrà probabilmente cancellato. E così è. Alle 18:00 mi viene detto che l’unico mezzo disponibile già in stazione parte alle 19:30. Benissimo! Compro il mio terzo biglietto e alle 20:30 circa partiamo da Cracovia. Una volta a bordo cerco di dimenticare la mia valigia e le meraviglie al suo interno: felpe di pile, maglie termiche, calzamaglie, calzini in pile, piumino 100gr. Nulla, non ho più niente. Me ne dimentico grazie alla mia vicina di posto. Si chiama Nina: “Lavoro come badante da tanti anni, ho anche lavorato in Italia”, racconta, “appena è successo tutto questo ho chiesto ai miei datori di lavoro polacchi di potere correre qui. Non voglio lasciare la mia famiglia e la mia gente da sole. Questo è il mio paese”. Una frase penso tanto semplice e ovvia quanto forte e vera. Perché torni a casa? Perché questo è il mio paese. Che razza di domanda ho fatto, penso subito.


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CAUSALE: Reportage Ucraina
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La corsa del nostro autobus si interrompe di continuo, lungo la strada infatti incontriamo volontari polacchi con scatole piene di viveri, medicine e vestiti. Il conducente e qualche viaggiatore scendono a recuperare i preziosi pacchi, ringraziano e si scambiano abbracci. “Questa guerra ci tocca da vicino. Entra anche nelle nostre vite e dare una mano alle nostre sorelle e ai nostri fratelli ucraini è un dovere” mi dice una delle volontarie salite a bordo con una busta piena di dolci. Il viaggio riparte e tutti tornano chini sul proprio smartphone, tutti a guardare e ad ascoltare gli ultimi aggiornamenti. Si sentono le sparatorie, la voce di Zelensky, quella di Putin, e quelle dei tanti militari che raccontano le missioni portate a termine a fine giornata. Non c’è spazio per altro e le uniche battute che qualcuno si scambia per strappare un sorriso riguardano per lo più Putin e Lukaschenko, soprannominato qui “Chikchirik”, ovvero uccellino, l’uccellino del Presidente russo.

Una volta raggiunto il confine due guardie salgono a bordo, chiedono il passaporto, fanno domande, poche per la verità, e solo dopo una lunghissima attesa di quasi 3 ore, ci permettono di passare dall’altra parte ed entrare ufficialmente in Ucraina. Ma il nostro autobus fatica a farsi strada: macchine, camion, ambulanze e auto della polizia bloccano completamente la via. E poi ci sono loro, quelli in fuga da Kiev e da Kharkiv: le donne e i bambini avvolti in coperte più pesanti dei loro corpicini. I civili penso. Quelli tirati in ballo ad ogni occasione, da una parte e dall’altra, messi in mezzo senza che nessuno abbia mai chiesto loro il permesso. Da sempre l’ingrediente speciale su cui costruire una narrazione di comodo. Questa volta però no, questa volta la linea che separa le vittime dai carnefici è chiara a tutti. Almeno per questa volta i civili sono solo le vittime, nessun dubbio. L’autobus si muove. Ci guardano, li guardiamo.

La carreggiata sinistra, in direzione opposta, è un coda infinita di auto. Per decine di chilometri la lunga linea di macchine fa da sfondo al nostro viaggio. Mi addormento su un braccio, mi risveglio, e le auto sono ancora lì, immobili come un guard rail. Un check point, un altro check point. Fuori si gela, i soldati salgono a bordo, controllano tutti piano piano, forse anche per godersi qualche istante di tepore in più. “Cosa fai? – Perché sei qui? Chi ti aspetta?”.

Arriviamo a Leopoli alle 4 del mattino, in ritardo di 7 ore. Le strade in città sono deserte, ma di fronte all’ingresso della stazione centrale è un brulicare di persone. Le tende improvvisate dai tanti volontari e dalla protezione civile riempiono la piazza, così come le decine di chioschi che preparano bibite calde e cibo per i civili in fuga dalle città sotto assedio. Finalmente nonostante la confusione riesco a intercettare Alex, il mio interprete. Gli hotel sono pieni, così come i bed and breakfast che fino a qualche settimana fa accoglievano i turisti che lentamente stavano tornando a fare visita alla città. Alex si propone di ospitarmi. Ringrazio e accetto. Anche perché non ho alternative. Se le avessi avute vorrei un bagno e un letto tutto per me. Ma di alternative proprio non ne ho.

Non ci sono taxi, né mezzi. C’è il coprifuoco e ogni cittadino trovato a non rispettarlo deve fornire alle autorità prove che giustifichino l’uscita e durante il nostro tragitto a piedi di circa mezz’ora veniamo fermati tre volte. La polizia e i civili incaricati controllano i documenti: passaporto e biglietto dell’autobus. “In città ci sono sabotatori russi” mi dice una guardia armata “Fanno foto a luoghi sensibili. Siamo costretti a controllare ogni singolo cittadino che vediamo per strada la notte”, anche se ormai, penso, è quasi l’alba e forse Leopoli potrà godersi ancora un altro giorno senza troppi sabotatori in città.