Da Londra all’Ucraina per combattere i russi: “Ora sono condannato a morte”
Ha gli occhi scavati, la postura ricurva e una decisa astinenza da nicotina. Aiden Aslin, 28 anni, ex operatore socio-sanitario britannico del Nottinghamshire arruolatosi con i marine ucraini per combattere contro la Russia, chiede una sigaretta mentre si “accomoda” sullo sgabello saldamente bullonato al pavimento della piccola cella del penitenziario di Donetsk adibita in via eccezionale a sala conferenze. «Avevo provato a smettere, ma a Mariupol ho ricominciato, la guerra è stata più dura di quanto potessi mai immaginare. Poi le sigarette sono finite come tutto il resto. In quella situazione valgono più dei soldi…», dice. Catturato dalle forze russe nella città assediata sul Mar d’Azov ad aprile insieme ad un altro cittadino britannico, Shaun Pinner, 48 anni, è stato condannato a morte per “attività mercenarie” e “terrorismo” dalla Corte della Repubblica Popolare di Donetsk, che la comunità internazionale non riconosce.
Il suo legale, Pavel Kosovan, ha fatto appello in Cassazione. Se dovesse essere rigettato, Aslin verrebbe fucilato. Da diverse settimane cerca come può di spronare i funzionari britannici di negoziare per suo conto uno scambio (non per forza tra prigionieri di guerra), una estradizione o qualsiasi cosa possa permettergli di evitare la morte.
Il ministro degli Esteri della Corona, Liz Truss, dopo la sentenza aveva dichiarato: «Condanno totalmente la condanna di Aiden Aslin e Shaun Pinner, detenuti da proxy russi nell’Ucraina orientale. Sono prigionieri di guerra. Questa è una sentenza falsa, assolutamente priva di legittimità… Il mio pensiero va alle famiglie. Continuiamo a fare tutto il possibile per sostenerle».
Quando accetta di incrociare la telecamera di InsideOver, la prima testata italiana a raggiungerlo in esclusiva, appare relativamente sereno e molto loquace: «La mia condizione, soprattutto mentale, sta migliorando rispetto alle ultime settimane, da quando ho saputo che il processo di appello sta andando avanti le cose vanno meglio. Ho di nuovo speranza“.
Ha qualche novità in proposito?
“Il mio avvocato sta facendo un grande lavoro e spero che la Corte possa accogliere l’appello e rivedere la sentenza tramutandola in una pena diversa dalla condanna a morte”.
I suoi tentativi di contattare il governo britannico stanno andando avanti?
“Dopo quasi quattro mesi qui la DPR mi consente di contattare ogni settimana Londra e ogni settimana chiedo all’ufficio del Ministero degli Esteri se c’è qualche novità sulla mia situazione e se c’è in ballo qualche tipo di negoziato i sforzo diplomatico per consentirmi di ritornare dalla mia famiglia. Mi rispondono sempre la stessa cosa…”
Cioè?
“Che le cose stanno procedendo in questa direzione ma non c’è nessuna novità concreta di cui possono darmi conto perché sono informazioni top secret. Ma io ne ho bisogno, per il mio benessere mentale. Gli ho persino fornito io un canale di comunicazione con la DPR ma non l’hanno mai utilizzato”.
Le hanno spiegato il perché?
“Dicono che non possono parlare direttamente con le autorità di Donetsk perché è una Repubblica non riconosciuta. Gli ho risposto che, tuttavia, con l’YPG in Siria parlano eccome. Ero lì nel 2017 quando il governo britannico mandò i suoi referenti a Kobane. È un atteggiamento molto ipocrita. Ho chiesto di individuare quantomeno un mediatore. Ma non ho novità in merito. E non ho cercato solo di mettermi in contatto con loro ma anche con le Nazioni Unite, con la Croce Rossa, con Human Rights Watch. Ho provato ad inviare mail al Ministero della Difesa, all’MI5. Ho provato a sentire anche l’ufficio del Presidente Zelensky”.
E cosa dicono?
“Parte la segreteria. Da quasi quattro mesi, anche da prima che arrivasse la sentenza che era già quasi scontata, mi è sempre stato ripetuto da Londra che la mia fosse una priorità assoluta. Ma sono ancora qui. Mentre vedo altri che vengono scambiati. Ce ne sono stati almeno 3. L’unica iniziativa degna di nota è stata l’incontro tra mia madre e l’ambasciatore ucraino a Londra”.
Com’è andata?
“Ho fatto richiesta di metterla in contatto con le autorità ucraine a Kiev giusto per avere una connessione visto che non riesco a raggiungerle direttamente. Dell’ambasciata hanno fissato altri meeting a distanza non così ravvicinata ed è passato quasi un mese senza alcun feedback. Considerando che ho servito nell’esercito ucraino mi sembra un trattamento riservato a me e alla mia famiglia quantomeno minimale”.
Si sente disconosciuto?
“Sì, direi di sì. Questo rifiuto di confrontarsi non lo comprendo e credo che questo atteggiamento da parte dell’Ucraina sia uno dei motivi per cui in questi 8 anni non si sia mai riusciti a trovare una soluzione pacifica con Donetsk. Sento tanta desolazione, spero sia la parola corretta, non ho finito le scuole [sorride, dicendo “desolution” anziché “desolation“]”.
NdR: Dalle informazioni in nostro possesso Boris Johnson e Volodymyr Zelensky si sarebbero confrontati anche su questa questione il 22 luglio durante il colloquio telefonico con cui il Primo ministro uscente ha rassicurato il Presidente ucraino in merito al pieno sostegno del Regno Unito a Kiev anche nella prossima legislatura. Zelensky avrebbe promesso che avrebbe continuato a lavorare per lo scambio dei prigionieri britannici.
Potrebbe aiutarci a ricostruire i passaggi del percorso che l’hanno portata a combattere con la 36esima Brigata dei Marine ucraini?
“All’incirca quattro anni fa, sono arrivato in Ucraina a febbraio. Poco prima avevo iniziato a trascorrere un periodo difficile in Gran Bretagna. Le persone che avrebbero potuto riconoscermi mi vedevano come quello che aveva combattuto con l’YPG nel 2015 e poi anche nel 2017. Dopo l’arruolamento nell’YPG al mio ritorno sono stato pesantemente… pesantemente… cerco di trovare la parola giusta, “molestato”, pesantemente molestato dalla polizia britannica. Sono stato arrestato con l’accusa di terrorismo contro l’Isis. Sa, se qualcuno conosce concetti di base come il terrorismo e così via allora non può non chiedersi come possa esistere un terrorista che combatte contro i terroristi?”
Quindi è stato arrestato…
“Hanno cercato di arrestarmi. Hanno chiesto di applicare la legge sul terrorismo e volevano accusarmi di terrorismo. Non ha mai funzionato per i motivi che ho detto e in pratica l’accusa è stata respinta. Ma le molestie che ho dovuto subire mi hanno fatto venire voglia di emigrare. Nel 2017 quando tornai di nuovo in Gran Bretagna dopo il mio secondo viaggio in Siria ho conosciuto una donna su un sito di incontri. Abbiamo parlato per un po’ e lei viveva in Ucraina. Così ho pensato di andare a vivere in Ucraina perché all’epoca stavo ancora lottando per trovare lavoro in Gran Bretagna e in generale non stavo più bene. Ogni volta che vado in un aeroporto vengo fermato, interrogato e anche ora quando vado negli aeroporti soffro pesantemente di attacchi di panico, perché ho sempre la sensazione che qualcuno mi fermi e mi prenda da parte e rovini tutto”.
Voleva cambiare Paese?
“Ho pensato che fosse la cosa migliore da fare iniziare una nuova vita, e volevo andare in un Paese in cui potessi ottenere la cittadinanza rapidamente, senza dover dipendere più dalla cittadinanza britannica, con i problemi che si presentavano ogni volta che andavo in aereo da qualche parte. Dopo aver fatto delle ricerche, ho considerato diverse soluzioni, come ad esempio la Legione straniera francese. Ho deciso di non unirmi a loro perché avevo amici che erano nella Legione Straniera e mi avevano detto che non ti trattano bene, eccetera. E il contratto è di cinque anni. Poi ho considerato l’Ucraina perché ho saputo che lì si può prestare servizio militare e ottenere la cittadinanza ucraina in tre anni. Quindi per me era l’ideale, tre anni. E poi potevo lasciare. Così sono arrivato a febbraio… Ho avuto qualche problema a trovare il modo giusto per arruolarmi ufficialmente. Alla fine, dopo un po’ di tempo, sono riuscito ad arruolarmi ufficialmente nel settembre del 2019″.
Che esperienza è stata?
“Il servizio militare in Ucraina non è… vorrei poterlo riassumere in una parola, corruzione, un sacco di nonnismo. Sono stato in una stanza ucraina negli ultimi quattro anni, quando abbiamo fatto un test psicologico per ottenere maggior consapevolezza. Chi si sottopone pensa di essere una unità d’élite. L’addestramento che ricevevamo invece è davvero minimo. Direi che è probabilmente peggiore dell’addestramento dei soldati di leva, perché ci sono molte persone che vanno là fuori pensando di essere soldati d’élite quando l’addestramento che hanno ricevuto è davvero minimo. E lo avete visto a Mariupol…”
In che senso?
“Soprattutto i nostri comandanti ci hanno praticamente messo in una posizione scomoda e nonostante sapevano che sarebbe finita male sia per i soldati che per i civili della città. Ho già raccontato che il comandante della brigata ha ricevuto un ordine di lasciare la posizione, per qualsiasi motivo, non so perché. E poi mentre stavamo tentando di trovare le diverse direzioni per Zaporizhzhia nel primo giorno dell’operazione, ci ha detto di ripiegare a Mariupol presso l’acciaieria Ilycha. E quella fu la nostra destinazione finale, dove alla fine ci saremmo arresi e, attraverso molteplici incontri con altri prigionieri, venimmo a sapere che il motivo per cui andammo lì era che il nostro comandante disobbedì agli ordini. Aveva disobbedito agli ordini come ha fatto il Battaglione Azov che si rifiutava di lasciare la città in qualsiasi circostanza. Così chiesero anche al mio gruppo, e a tutti gli altri dislocati e a tutte le unità militari in città di rimanere a difendere la città, cosa che militarmente era una pessima idea”.
Cosa glielo faceva pensare?
“Avevamo visto che stavamo per essere circondati da tutte le direzioni e questa scelta ha causato enorme perdita di vite umane e un enorme livello di distruzione. Si sarebbe potuto evitare se tutti i comandanti avessero fatto ciò che avrebbero dovuto fare e avessero rispettato, ad esempio, le vite dei soldati, delle famiglie e le vite dei civili e avessero semplicemente lasciato la città”.
Non era abbastanza motivato per combattete?
“Ho cercato di uscire dall’esercito. Quando il mio contratto è terminato l’anno scorso, stavo seguendo la procedura per prendere la cittadinanza ucraina e sono andato all’ufficio immigrazione e mi hanno detto che non potevo ancora prendere la cittadinanza ucraina perché c’era un’altra legge che ti impedisce di prenderla dopo che sei veterano o non so cosa volessero inventarsi. Ho dovuto firmare un contratto di un altro anno per poter aspettare l’entrata in vigore di una nuova legge, ma era già troppo tardi per l’inizio della guerra. Quindi eccomi qui”.
Ha pensato di fuggire?
“Quando, il primo giorno, è iniziata l’operazione, io volevo provare a disertare, ma era troppo pericoloso per me cercare di allontanarmi dalle posizioni perché si rischiava di finire sotto bombardamenti pesanti e colpi di artiglieria. Così ho aspettato fino a quando non ci siamo ritirati. Ho provato a disertare e ho visto che si combatteva in lontananza. Quindi non ero ben sicuro della situazione e sapevo che se fossi andato in quella direzione e fossi stato catturato, difficilmente sarei stato visto come un disertore. E non sarei mai stato scambiato. Così il comandante disse di aspettare a Mariupol e cercare un passaggio verso Zaporizhzhia”.
Poi cos’è successo?
“Quando siamo arrivati lì ci dissero che eravamo circondati e sa, anche le persone di lì, c’erano soldati ucraini nella mia unità che volevano disertare e non volevano combattere. C’erano anche altri stranieri che ho incontrato e cercavano di far aprire gli occhi ai comandanti affinché sapessero com’era la situazione davvero. Preferivano lasciare la città e permettere che rimanesse in piedi piuttosto che rimanere lì e causare distruzione in questo modo. Non li hanno ascoltati.
Noi, come ho detto, sapevamo come era la situazione. I russi stavano avanzando dalla direzione della Crimea e le forze della DPR stavano arrivando dalle altre due direzioni. Chiunque abbia un minimo di buon senso sa che se si è circondati non c’è via d’uscita”.
Come hanno reagito gli altri marines?
“C’erano molti soldati che si sentivano delusi. Si sono sentiti traditi dal regime di Kiev. Be’ in pratica ci hanno lasciati a morire. Ci hanno messo in questa posizione e continuavano a dire: “Oh, i nostri eroi stanno ancora difendendo Mariupol”. Ma in quel momento intorno a noi c’erano forse 200 chilometri in territorio nemico. E ho trovato così paternalistico che quella cantilena fosse come un modo per mostrarci una carotina, un premio di consolazione. Ma non stavano facendo nulla per aiutarci ad uscire da quella situazione. Sa, i russi e la DPR ci hanno offerto, come al nostro comando, la possibilità di attraversare un corridoio verso il territorio ucraino. L’unica cosa che avremmo dovuto fare era deporre le armi e andarcene, era tutto quello che dovevano fare e potevamo riprenderci la nostra vita e tornare in territorio ucraino. I comandanti ucraini a Mariupol hanno rifiutato questa offerta. Al tempo nessuno di noi ne aveva sentito parlare. Io l’ho saputo forse due settimane dopo. La cosa mi irrita molto…”
La irrita?
“Sì, perché avevano la possibilità di lasciare pacificamente la città. Lasciando le nostre armi, lasciando qualsiasi cosa e tornando dalle nostre famiglie. Ma loro hanno scelto di non farlo e di metterci in quella posizione in cui sapevano che molti di noi sarebbero morti o sarebbero stati catturati. Noi ci siamo arresi, altri sono andati a cercare una via d’uscita, e i comandanti che hanno preso queste decisioni sono finiti per rimanere chiusi dentro l’Azovstal con il Battaglione Azov, eccetera.
Anzi, la cosa in realtà non mi irrita mi fa proprio arrabbiare, il fatto che abbiano preso queste decisioni quando gli era stata offerta una via d’uscita”.
Avevano qualche piano d’emergenza magari…
“Io non so per quanto tempo avessero intenzione di rimanere lì dentro i nazionalisti che dicevano di voler combattere, lottare fino alla morte, come direbbero alcuni di loro, di combattere come una specie di vichinghi. Ma invece la cosa che trovo davvero ironica è che gli è stato ordinato di arrendersi e loro si sono arresi, facendo comunque tutto quello che dicevano di non voler mai fare per una via d’uscita pacifica. La DPR e i russi hanno dato all’Ucraina qualche giorno prima dell’operazione l’opportunità di lasciare Donetsk e Lugansk, se l’avessero fatto, dubito fortemente che sarebbe successo qualcosa di simile. Avrebbero rispettato l’accordo, ringraziato, e avrebbero detto: ‘Ok ora possiamo lavorare ad una soluzione pacifica con il dialogo’. Ma l’Ucraina, come ho detto, negli ultimi otto anni ha rifiutato qualsiasi tipo di dialogo. E questo è il punto in cui ci troviamo oggi”.