Via le forze internazionali: ora?

Via le forze internazionali: ora?

Sapete cosa significa vivere ogni giorno sapendo che potresti saltare in aria in qualsiasi momento? Mentre stai andando a prendere tua figlia a scuola? Mentre tua moglie è al mercato, mentre vai al lavoro, o entri in un negozio. In attimo ci sei e poi non ci sei più. Ci pensi ogni volta che esci di casa, e a volte anche quando sei a casa, perché le esplosioni possono essere talmente forti da far crollare i muri di dove vivi”. A parlare è Mohammad Sigari, un afgano che fa il negoziante nella una volta trafficata Chicken Street, piena di venditori di tappeti e antichità. Gli afgani vivono nella paura costante che qualcosa, da un momento all’altro, possa accadere. Una paura che pervade ogni movimento e ogni momento della vita. A Kabul tutto sommato la situazione è migliore, ma il ritiro delle truppe internazionali, così repentino, quando doveva essere più cadenzato, ha lasciato il paese in balia, non solo dei talebani che ne hanno subito approfittato, ma anche del Daesh (Isis) che sta penetrando nella parte est del paese, portando massacri, esecuzioni, combattimenti senza precedenti.

Anche a Kabul non si vedono più soldati stranieri. A cercare di garantire la sicurezza solo nella capitale, migliaia di soldati e 14 mila poliziotti afgani, addestrati velocemente, spesso ancora troppo acerbi per contrastare una reale minaccia, a volte abbastanza fortunati da impedire che qualche attacco arrivi. L’ultimo avvenuto al palazzo presidenziale qualche mese fa, i poliziotti che presidiavano un lato del perimetro, finiti sotto attacco, sono tutti fuggiti all’arrivo della prima scarica di fuoco, solo uno è rimasto e poi è stato decorato per aver ucciso buona parte degli attentatori prima che arrivassero i rinforzi.Ogni giorno le intelligence internazionali mandano messaggini sui posti dove non andare nella capitale prevedendo scontri, autobombe, kamikaze, a volte con indicazioni talmente precise da essere spaventose: “Due uomini senza barba in abiti occidentali”, “Una Toyota grigia con tale targa imbottita di esplosivo”. Informazioni che arrivano ai militari, diplomatici e politici stranieri, ma non alla gente comune, che si aggira dall’altra parte delle alte mura di protezione all’interno di una città costantemente presidiata e immersa nel traffico, dove chiunque potrebbe muoversi nascosto nell’ombra senza essere neanche notato.

La forza di pronta reazione, le forze speciali dalla polizia afghana, ci mostrano come fanno. Sono quelli che intervengono in caso di terrorismo, ma anche per cercare armi e militanti talebani, quando arrivano indicazioni. Assaltano case, intervengono in casi di ostaggi, bloccano il traffico e cercano macchine sospette. Una sorta di Nocs paragonati agli italiani. Piccoli nuclei letali, particolarmente addestrati, indossano tutti i passamontagna per non essere riconosciuti, girano con pickup che mostrano una mitraglietta sempre carica. Anche se non mostrano i volti, hanno movimenti aggressivi, inquietanti, minacciosi.Bloccano un incrocio, fermano il traffico, la gente al volante si paralizza, alcuni agenti puntano i fucili verso l’esterno per proteggere l’aerea, presidiano la zona mentre altri controllano le macchine. I passanti si fermano, guardano curiosi, ma anche spaventati: sanno che dove ci sono loro, c’è anche la possibilità di uno scontro a fuoco. Ci sono troppe armi in giro e troppi ragazzini che corrono all’uscita delle scuole, donne che fanno la spesa. Chi ha i vetri oscurati delle macchine, vietati a Kabul, viene fermato, i bagagliai vengono aperti, le portiere spalancate, la gente fatta scendere, mani sul veicolo. “Lo capiamo da come vestiti, di solito vengono dalle campagne, o dall’atteggiamento, in qualche modo si capisce chi è sospetto. Troviamo soprattutto armi, droga e persone senza documenti, a volte perfino razzi”, ci racconta il vicecapo della polizia, il colonnello Sarwan Al Amiar, che è nella polizia da ben 29 anni, tranne nel periodo del regime talebano. Una vita sul filo del rasoio, forse il lavoro più pericoloso del paese, “carne da macello”, li aveva definiti un generale americano, responsabile dell’addestramento delle truppe afgane. E Al Amiar, conferma: “Questi ragazzi vogliono davvero garantire la sicurezza del paese, ma è difficile, molto difficile, anche se le forze speciali, hanno un equipaggiamento migliore, sono più addestrati, e hanno una particolare prestanza fisica”.

Certo è che la gente non li vede proprio come protettori, molti sono troppo violenti, molto corrotti, incapaci di essere forti con i militanti e gentili con i civili. “A volte non sappiamo se sono più pericolosi i poliziotti o i talebani, a volte forse non c’è neanche differenza”, ci dice un ristoratore, facendo cenno alla guardia davanti al suo locale. Il vice della polizia conferma che le cose sono molto migliorate dall’inizio, che sicuramente c’è ancora tanto da fare, che a volte sono esausti perché sono ormai rimasti soli, ma non c’è alcuna alternativa ora che gli internazionali, hanno deciso di sbaraccare di corsa. Lui non racconta alla moglie la sua giornata faticosa, “che senso avrebbe spaventarla più del necessario, quando tutti sanno cosa sta accadendo qui”.“Vi voglio assicurare che la situazione è migliorata, ora tutti lavorano sotto la bandiera dell’Afghanistan”, ci dice il portavoce della polizia, un ex attore afgano che ancora tiene molto al suo passato di notorietà, sfoggiando nel suo ufficio un poster che lo mostra vestito da soldato circondato dalle fiamme finte di un film. Più del 30 per cento dei poliziotti sono analfabeti, cercano di lasciare i ranghi per tornare dalle famiglie quando è il momento della raccolta dell’oppio e fare un po’ di soldi in più visto che guadagnano 250 euro al mese.

Ma se l’Afghanistan è considerato un paese sull’orlo del baratro, tra povertà, violenza, prospettive di vita bassissime, tutti puntano il dito verso un solo e unico responsabile: il Pakistan, nemico numero uno dell’Afghanistan perché sostiene, arma, e permette l’entrata, a detta degli afgani dei militanti talebani e ora dell’Isis, nonostante Islamabad sia uno dei migliori alleati degli americani, in quella che ormai, la solita incoerenza internazionale, dove amici e nemici sono legati gli uni agli altri e spesso sono la stessa cosa. “I pakistani sono ipocriti, sono nostri nemici, avevamo detto agli americani di non fidarsi di loro – si arrabbia il colonnello colonello Abdul Jalil Samaid – e se non verranno fermati, vi garantisco che il terrorismo aumenterà anche in altri paesi, soprattutto quelli intorno a noi”. La soluzione? “Cercate di capire chi ha davvero interesse a volere una regione stabile e tranquilla, e smettere di dare soldi a chi fa il doppio gioco”.