Tra i ghiacci e la neve: l’addestramento degli alpini

Tra i ghiacci e la neve: l’addestramento degli alpini

“Chi è il tuo istruttore, alpino?”. Domanda un anziano sottufficiale, osservando un tipo che avanza con il berretto calato sulla nuca e gli sci al contrario.

Domanda lecita sia perché lo sci andrebbe trasportato con le punte rivolte verso, il basso sia perché c’è un giornalista nella base e quindi si pretende dagli allievi ancora più rigore. Peccato che sotto le spoglie della “discolo” alpino ci sia proprio il reporter che per cinque giorni frequenterà il corso base di sci militare. E per farlo bene è necessario si confonda fra i militari della caserma del 9° Reggimento Alpini de L’Aquila.

Leit motiv degli iter addestrativi dell’esercito italiano è la capacità di gestire lo stress e l’equipaggiamento delle truppe da montagna mette a dura prova la testa, prima ancora che il fisico. Infatti, poiché le attività da svolgere sono diversificate, ai già citati sci si aggiungono le ciaspole, due tipi diversi di abbigliamento, sacco a pelo “meno trenta”, ulteriori indumenti caldi, pala, due paia di scarponi.

“Ogni uscita aiuta gli allievi alpini a capire cosa sia indispensabile – spiega il caporal maggiore capo scelto Rino Terramani – per questo diciamo loro di portare tutto: con il tempo, con l’esperienza e soprattutto memori dello sforzo imparano a selezionare il necessario”.

Zaini da cento litri riempiti fino al limite: quando l’uscita in montagna prevede una continuativa (giorno e notte) e a quasi 2mila metri d’altezza, la speranza è che quanto trasportato valga davvero lo sforzo. Infatti, lasciato il pullman e montate le pelli di foca (striscia sintetica che crea attrito col suolo) inizia lo sci di fondo, circa due chilometri in piano e in pendio per raggiungere “Gli Innamorati”, area di sosta a metà fra gli impianti di salita e di discesa di Campo Felice, grande complesso di sport invernali alle porte de L’Aquila.

Per chi sulla neve c’è stato solo da piccolo e con il bob il primo impatto è un po’ forte; se poi si è un reporter al seguito della compagnia i break aumentano, fra riprese di fiato e riprese fotografiche: grande fatica, muscoli doloranti ma uno scenario che lascia basiti per tanta, naturale bellezza. Mai successo prima che una penna da quotidiano seguisse le penne nere in azione e la singolare, forse unica, presenza del giornalista aumenta quello spirito di corpo che da oltre un secolo caratterizza gli alpini. Inoltre riuscire a portare a termine il tragitto è un elemento in più che rafforza la confidenza e la condivisione fra il civile e i militari…

“Niente alcol mi raccomando”, rammenta, con tono scherzoso, il Primo Maresciallo Piero Figurato capo del team di istruttori. Non c’è pericolo, nessuno va oltre il caffè per quanto la sfilza di bombardini (vov caldo e panna) trangugiata dai vacanzieri della settimana bianca un po’ di desiderio lo faccia venire.

Niente alcol perché si è in servizio e perché “è un vasodilatatore. Lasciamo nel cassetto l’immagine dell’alpino con la grappa: a pochi minuti di calore segue una dispersione termica che non aiuta a resistere al freddo rigido”, prosegue Figurato, mentre chiede ai corsisti di ricontrollare gli equipaggiamenti. “Si è convinti di aver portato tutto, poi si arriva e ci si accorge che qualcosa manca”.

Malgrado sia uno dei più duri della fanteria leggera italiana, l’addestramento degli alpini colpisce per il rapporto fra istruttore e allievo fatto di rigore, certo ma anche di comprensione, di disciplina e di momenti informali specie quando si scava la “truna“, ricovero spartano ricavato dalla neve fresca dove si trascorrerà la notte.

“Meglio stretta che larga – spiega Terramani – perché poi ad ampliarla si fa sempre in tempo. L’importante è che il poncho-tenda copra bene, evitando spiragli: di notte si scende a meno venti e il rischio di congelamento è dietro l’angolo, soprattutto se la neve che cade sul sacco a pelo si scioglie, si bagna e poi si solidifica…”.

La truna è pronta e a primo acchito pare un loculo, con tanto di lucina: una candela cimiteriale che serve a scaldare e a fornire un minimo di illuminazione. Niente di macabro, semmai un arduo e “scomodo” modo di testare le capacità di resistenza e di adattamento del militare nel contesto invernale.

Attorno alle 20, in un silenzio surreale tre luci spuntano dalla pista: sono il comandante del 9°, colonnello Paolo Sandri e i suoi comandanti di battaglione arrivati per trascorrere la notte con i ragazzi del corso.

“Il corso di sci militare è prova necessaria per un alpino, nonché indispensabile per acquisire competenze operative utili tanto all’estero quanto in ‘casa'”, commenta il colonnello Sandri. Con “casa” si intende l’Italia, in particolare i luoghi delle emergenze neve e terremoto nei quali il 9° è intervenuto e dove continua a lavorare nell’ambito di Sabina 2 e di Strade Sicure.

“Insieme al personale militare e della difesa civile – continua il comandante – siamo arrivati con gli sci ai piedi anche a Rigopiano, poiché era impossibile giungervi con altri mezzi”.

Dopo una notte calma, una breve bufera accompagna le prime luci dell’alba. Il maltempo non ferma però le penne nere che, zaino in spalla, si lanciano giù per l’ultima discesa: quasi un chilometro percorso con scarsa visibilità fino al rifugio a valle. Le motoslitte del team di soccorso del 9° sorvegliano i corsisti: quattro operatori la cui giornata è iniziata alle otto del giorno precedente, finita alle cinque e proseguita assistendo i commilitoni.

Un caffè aiuta a recuperare le forze mentre ci si scalda accanto alla stufa del rifugio. Chiacchiere, qualche risata e l’Aiutante Figurato che arriva con nuovi ordini: “Cambiarsi, mettere gli scarponi, indossare le ciaspole e avanti fino all’incrocio. Su ragazzi sono solo un paio di chilometri, poi tutti in caserma!”.