Libertà velata
Essere donna sotto i talebani

Libertà velata

“Se i talebani dovessero fare irruzione qui, in questo esatto momento, sicuramente mi arresterebbero, mi porterebbero nella loro stazione di polizia e credo che verrei picchiato e punito in modo molto severo”. Hussain Bakhai ha 27 anni, è un insegnante, ed è il direttore di una delle scuole clandestine per ragazze nate a Kabul dopo che i talebani hanno chiuso gli istituti superiori femminili, impedendo l’accesso all’istruzione alle studentesse afghane.

L’edificio in cui un gruppo di docenti ha deciso di tenere le lezioni si trova nella periferia della capitale e lo si raggiunge percorrendo un tratturo sabbioso puntellato da case di terra e fango. La catena dell’ Hindukush, tutt’intorno, domina e abbraccia la capitale, il sole inonda di luce la città, i mercati, alla vigilia della festa dell’ Id al-adha, sono animati da un folla brulicante e la musica diffusa dai carillons dei venditori di gelati si espande in ogni quartiere. Assume tutto questo i connotati di un dopo guerra artefatto e ostentato e della messa in scena di una normalità genuina ma fittizia, perché oggi, in Afghanistan, il visibile non è che un velo. Il Paese reale si trova al di là dello sguardo, nei baratri privati dei singoli che, dal 15 agosto del 2021, consumano i propri giorni sospesi sul filo di un presente incerto, scossi da un vento che viene dal passato e ignari del futuro in cui questo  li trascinerà o li farà precipitare.

Afghanistan, Kabul. Dopo la presa del potere da parte dei talebani, è stata provvisoriamente sospesa a tempo indefinito l’istruzione per le ragazze oltre i 13 anni. Per raggirare questo impedimento sono nate delle scuola segreta per ragazze, dove in clandestinità le studentesse afghane studiano materie umanistiche che il governo vieta poiché aiutano a formare uno sviluppo critico

Tanto è abbacinante il sole su Kabul, tanto è buia invece la stanza in cui decine di studentesse, in un silenzio improprio, stanno seguendo la lezione di letteratura. Hussain dirige la scuola, insegna e ha costituito anche una squadra di professori che ogni settimana, in modo volontario, permettono alle allieve di continuare nel loro percorso didattico. “Noi stiamo vivendo un momento molto critico, ora, in Afghanistan. La chiusura delle scuole è un problema enorme ma io, come professore, ho una responsabilità: offrire la mia conoscenza, la mia educazione, a queste ragazze perché possano crescere. È un mio dovere. È un dovere di tutti noi se vogliamo che le cose cambino. Lo so che ci sono dei rischi; ma occorre affrontarli. E poi io non sto facendo nulla contro il governo, non sto facendo niente contro i talebani, sto soltanto aiutando la mia gente. Con i libri e con la cultura”. Parla con pacatezza Hussein mentre spiega, con l’onestà autentica di chi crede nel diritto della letteratura di trasgredire l’inconveniente della realtà, come sia essenziale per le studentesse leggere e acculturarsi, solo così, sostiene il professore, le alunne possono acquisire consapevolezza dei propri diritti. “Quello che noi stiamo facendo è dare una candela a queste ragazze perché possano muoversi nelle tenebre dell’Afghanistan di oggi”.

Le nuove regole dell’esecutivo talebano consentono alle bambine di andare alle scuole elementari e alle studentesse universitarie di proseguire i loro studi negli atenei del Paese. Per tutte le allieve delle scuole superiori invece è stato vietato l’accesso a scuola. I talebani sostengono che il provvedimento sia provvisorio ma da settembre 2021 ad oggi, il divieto continua a perdurare e la preclusione all’istruzione per le ragazze afghane è una delle misure discriminatorie più radicali introdotte dal governo dei mujaheddin che hanno dato vita a un vero e proprio regime di apartheid di genere nella nazione asiatica. “Riuscite a immaginare come sia cambiata la mia vita?”, domanda una giovane di 17 anni durante una pausa delle lezioni: “Andavo a scuola, sognavo un futuro felice, una carriera brillante e poi, dall’oggi col domani, tutto è crollato e mi è stato detto che non potevo più imparare e studiare perché sono una donna”. Sono parole lapidarie che portano direttamente all’essenza del dramma: “Appena ho scoperto dell’esistenza di questo posto sono subito venuta qua – prosegue l’allieva – Io non accetto che mi venga tolta la possibilità di studiare. I miei genitori, soprattutto mia madre, sono terrorizzati ogni volta che esco di casa per venire in questa scuola ma, anche se è pericoloso, io devo studiare. Non posso perdere la mia vita”. La ragazza, che vuole  divenire un giudice e parla in un inglese molto fluente, conserva ancora, nonostante ciò che sta affrontando, un’onesta fiducia nel domani e manifesta, con le sue parole, quell’audacia intellettuale capace di partorire una poetica del futuro tanto odiata da chi crede invece nel rigorismo oscurantista del passato: “I talebani se ne andranno presto. Un governo come questo non può durare per sempre e quando cadrà ritorneremo ad essere padrone del nostro domani e libere nelle nostre vite”.

Afghanistan, Kabul. n Afghanistan oggi, secondo del stime del WFP, 19milioni di persone soffrono di acuta insicurezza alimentare, e 4 milioni tra bambini di malnutrizione. Quasi la metà dell’intera popolazione del paese dipende dagli aiuti alimentari. In ogni distretto della capitale Kabul, vengono distribuiti mensilmente 5 litri d’olio, 6kg di fagioli, 1kg di sale, 50kg di farina per nucleo famigliare.  I Talebani garantiscono la sicurezza ed il controllo dell’ordine durante la distribuzione degli aiuti alimentari

“Il motivo per cui i talebani non vogliono che le ragazze studino è perché hanno paura. Si, loro hanno paura che noi studiamo, che prendiamo coscienza dei nostri diritti e che lottiamo per essi” racconta una docente che per ragioni di sicurezza vuole preservare l’anonimato e che si copre il volto durante l’intervista. “La vita di tutte noi donne afghane è cambiata. Io ora ho perso la mia vita. Mi viene detto dove posso andare, cosa posso studiare, chi mi deve accompagnare, persino come mi devo vestire. Io non sono più me stessa”. La docente spiega che le materie che sono maggiormente osteggiate dai talebani sono quelle umanistiche, in particolare la letteratura, perché permettono di sviluppare un pensiero critico e, analizzando l’attuale situazione che sta attraversando il Paese, aggiunge: “Le donne sono già scese in strada per protestare. L’hanno fatto quando i talebani sono entrati a Kabul e quando hanno chiuso le scuole. Non bisogna fermarsi. Occorre studiare, unirci e protestare”. Interrogata quindi se sarebbe disposta a indossare il burqa qualora divenisse obbligatorio, la giovane insegnante, difronte al materializzarsi di uno scenario possibile e imminente, si interrompe, sprofonda in una lunga pausa di smarrimento e macerazione interiore e poi scoppia in un pianto inconsolabile e definitivo.

Afghanistan, Kabul. X.X. giovane studentessa afghana di 21 anni, insegnante in una scuola clandestina, dichiara che da quando sono saliti al potere i telebani, lei ha perso il suo futuro

Nell’Afghanistan del nuovo Emirato islamico le donne sono vittime di restrizioni anche in ambito lavorativo. E a raccontarlo è Madina Norwat, una giornalista di 23 anni dell’emittente Tolo News. “Nell’ultimo anno molte cose sono cambiate. Noi donne giornaliste siamo costrette a coprirci integralmente se vogliamo realizzare dei lavori in città, quando conduciamo il telegiornale dobbiamo nascondere il volto e inoltre i talebani hanno introdotto la censura perché ci dicono cosa si deve e cosa non si deve raccontare”. Una collega intanto, nella redazione della televisione afghana, si prepara ad andare in onda, si trucca gli occhi, sistema il velo e poi indossa una mascherina nera.

“La maschera uccide la nostra voce, la nostra personalità, uccide noi donne”. Chiosa Madina che conclude dicendo: “Io sono costretta ad indossarla perché sono l’unica in famiglia che ha un lavoro. Vista la condizione di crisi economica in cui siamo devo accettare anche questo pur di portare del cibo a casa”.

Afghanistan, Kabul. Ogni giorno diverse, decine di donne afgane che vivono in stato di indigenza si affollano davanti alle panetterie della capitale elemosinando un pezzo di pane. Il proprietario della panetteria Mehrdel, Mehrdel Rahmati, aiuta donne e uomini in difficoltà distribuendo loro pane fresco quotidianamente

Scende la sera su Kabul, le vie della città si spopolano lentamente, i negozianti abbassano le saracinesche delle botteghe nei bazar ma nel distretto di Kotal Khair Khana centinaia di donne coperte dai burqa si dirigono verso la panetteria del quartiere e si siedono sul marciapiede difronte al forno per mendicare un tozzo di pane. I residenti, durante la giornata, lasciano delle offerte al titolare della panetteria che all’imbrunire, con le donazioni ricevute, sforna del pane fresco che distribuisce alle centinaia di donne sole e senza lavoro che ogni sera qui si radunano. “Io sono madre di cinque figli e sono vedova. Non ho niente. Vivo grazie agli aiuti dei vicini e di chi mi dona del cibo”, racconta, coperta da un burqa, una donna di 45 anni che prosegue spiegando: “Non ho più soldi perché non c’è più nulla in Afghanistan. Non c’è lavoro, non ci sono aiuti, non ci sono speranze. Solo venendo qua riesco ad avere del pane da portare ai miei bambini”.

Afghanistan, Kandahar. Nell’ospedale Mirwais Hospital di Kandahar, lo psichiatra Kamal Omari, ogni giorno visita donne affette da disturbi psichici. Da quando i talebani sono saliti al potere, sempre più donne, costrette ad essere confinate tra le mura domestiche, si sono rivolte alla sua struttura

Un ragazzo esce dalla panetteria con in mano una gerla colma di naan (tradizionale pane afghano di forma circolare ndr) che distribuisce al florilegio di mani che si levano da sotto i burqa blu. Alcune donne se ne vanno, altre ne arrivano e intanto sopraggiunge anche un miliziano talebano: mimetica, fascia bianca legata intorno alla fronte con impressa la professione di fede, kalashnikov a tracolla e sul braccio una toppa raffigurante il volto del mullah Omar. L’uomo, statuario, controlla la situazione e la donna che ci stava raccontando il suo vissuto smette di parlare all’istante.