CALMUCCHIA
UN DESERTO IN EUROPA

Calmucchia, un deserto in Europa

Fotografie di

“Salite con me, vi porto io”, dice Anatoly. Lasciamo il centro abitato a bordo di una Lada Niva, decisamente più adatta della nostra auto a noleggio allo sterrato che ci tocca percorrere per raggiungere la sua fattoria. Fuori dal finestrino la cruda realtà della Calmucchia, repubblica autonoma della Federazione russa, poco distante dalla vecchia Stalingrado. Davanti a noi distese di steppa polverosa si alternano a villaggi isolati, dune desertiche e mandrie al pascolo che invadono flemmaticamente la carreggiata.

“Sono spesso costretto a spostarmi in motocicletta per decine di chilometri se voglio trovare una zona adatta al mio gregge. Non posso sfruttare tutti i giorni lo stesso terreno, diventerebbe in poco tempo inutilizzabile”, racconta, mentre imbocca l’ultimo tratto di strada che ci separa dalla casa rurale in cui vive insieme alla moglie Inna.

Le sue parole sono la sintesi perfetta di una quotidianità complessa e inevitabile, scandita da una rotazione costante del pascolo e animata da un’evidente consapevolezza delle criticità ambientali.

Problemi comuni a tanti abitanti della regione, che scontano ancora oggi l’imprudente programma agricolo pianificato negli anni cinquanta dal governo sovietico, incentrato sullo sfruttamento massivo dei pascoli.

Una politica avventata che determinò la quasi totale erosione del suolo calmucco e che lasciò in eredità a questa piccola Repubblica un primato certamente non invidiabile: quello di regione antropizzata più arida dell’intera Europa geografica.

Già a inizio millennio 770 mila ettari di terreno erano costituiti da sabbie infertili, oggi più dell’80% del territorio presenta caratteristiche desertiche o semi-desertiche. Un’inversione di tendenza, allo stato attuale, appare sempre più difficile da innescare per via di alcuni fattori piuttosto controversi. Primo tra tutti, il riscaldamento globale.

Tra il 2012 e il 2020 i cambiamenti climatici hanno causato un aumento delle temperature medie di 1,5 gradi. I periodi di siccità estrema sono diventati più frequenti, determinando ulteriori mutamenti nella flora autoctona e accentuando così le problematiche relative all’infertilità e alla desertificazione di un suolo già compromesso dal pascolo intensivo. Oggi il governo locale ha imposto un limite massimo di capi di bestiame per ogni azienda agricola, ma la pastorizia resta un rebus senza soluzione: da un lato concausa del progressivo degrado geologico, dall’altro principale attività economica del Paese.

Negli anni sovietici Anatoly e Inna hanno lavorato a lungo nei pressi di Tsagan Aman, sulla sponda occidentale del fiume Volga. La crisi economica successiva alla dissoluzione dell’URSS li ha spinti a mettersi in proprio e ad avvicinarsi alla capitale Ėlista, scelta che ha permesso ai loro figli di frequentare la locale università.

Oggi i coniugi esportano carne nel resto della Russia, in Iran e Azerbaijan e non rimpiangono la decisione presa nonostante le numerose difficoltà che devono affrontare.

Oltre alla desertificazione, in Calmucchia bisogna infatti fare i conti con un’altra questione: quella dell’approvvigionamento idrico. Sotto la superficie della steppa sono presenti diverse falde acquifere, ma la loro elevata salinità le rende utilizzabili solo per il consumo animale. Anatoly e Inna, come quasi tutti gli autoctoni, non hanno dunque la possibilità di coltivare un orto: “Riceviamo l’acqua una volta a settimana da un’autobotte, ma la usiamo solo per i consumi domestici. L’agricoltura qui non esiste. La frutta e la verdura che vedete al mercato viene tutta da fuori”.

La carenza di riserve potabili, anch’essa aggravata dall’innalzamento delle temperature medie, è diventata nell’ultimo decennio sempre più preoccupante e impegna ormai gran parte delle risorse dell’Istituto di ricerca sul suolo arido. Questo centro di studi statale, fondato per raccogliere dati utili a contrastare la desertificazione, conta 30 collaboratori e monitora costantemente diversi parametri ambientali.

Il fabbricato che lo ospita ha tutto l’aspetto di un ex edificio scolastico di periferia. Qui incontriamo Bogun Andrey Petrovich, il direttore. Un omone pallido e dall’approccio un po’ ruvido, di quelli che fanno durare pochissimo i convenevoli.

“Il riscaldamento globale ci sta mettendo in una condizione di serio pericolo. L’aumento delle temperature medie ha determinato disgeli invernali ed estati più torride della norma con conseguenze disastrose per il nostro ecosistema”, dice, mentre ci mostra le aree della repubblica più a rischio su una mappa topografica.

Secondo le stime dell’Istituto, negli ultimi otto anni le precipitazioni medie della Calmucchia si sono ulteriormente abbassate, facendo registrare valori minimi compresi tra i 150 e 200 mm, parametri più in linea con il clima desertico che steppico.

“Il tasso di umidità del suolo è critico e ciò ha avuto un impatto notevole sia sulle specie vegetali autoctone che sulla già complicata produzione foraggera”, aggiunge Petrovich. “Un territorio che vive di allevamento questo non se lo può permettere. In condizioni del genere, cavarsela è quasi impossibile. Per la gente comune è molto più semplice andare via da qui”, chiosa poi amaramente.

E in effetti, le difficoltà di ordine ecologico di questo sfortunato territorio incidono anche sul fattore demografico. Col venire meno delle risorse naturali nella campagna, gli abitanti si spostano sempre più spesso dai villaggi rurali verso altre città della Russia. I dati parlano chiaro: nel solo biennio 2018-2019, il tasso migratorio ha registrato un saldo negativo di oltre 4.700 persone e la popolazione ha raggiunto il minimo storico di 271.135 abitanti.

 

Il borgo di Adyk, situato a sud-est dalla capitale Ėlista, è forse l’unico a non rispecchiare il trend demografico del Paese. A differenza di altri piccoli centri sperduti nella steppa, qui il saldo delle nascite è positivo e l’organizzazione della collettività impeccabile.

“Siamo una grande famiglia. Ognuno di noi mette a disposizione le proprie competenze per il bene comune. È l’unico modo per andare avanti”, ci racconta Chongor, un abitante del villaggio. “Il territorio non offre molte risorse. Passiamo spesso momenti difficili, ma la nostra gente è unita ed è questo in fondo che ci spinge a restare. Ci arrangiamo con quello che c’è e siamo felici di condividerlo con gli altri”.

Nonostante uno spirito di adattamento fuori dal comune, anche qui la vita si conferma durissima e la sopravvivenza garantita soltanto da un certo approccio autarchico. Lo stesso che ha portato i cittadini ad autofinanziare la costruzione di un depuratore pubblico per migliorare le sofferte condizioni di rifornimento idrico. Una benedizione, se si pensa che in certe aree della regione il consumo di acqua è di soli 7 litri al giorno pro-capite.

Ma l’aridità del territorio, la carenza di riserve potabili e i segni del cambiamento climatico tornano ad essere implacabili lasciandosi Adyk alle spalle e scendendo ancora più a sud. Nei pressi dell’abitato di Komsomol’sky un’area sabbiosa di 800 ettari domina l’intero panorama. Solo rarissimi accenni di vegetazione sbucano dal terreno: il paesaggio rispecchia fedelmente l’idea più classica di deserto che un occidentale medio può avere.

Ci accompagna Konstantin Bembeev, vicedirettore del Centro per la rivitalizzazione della steppa, istituto scientifico che si occupa di contrastare la desertificazione del černozëm, suolo tipico della regione. L’attività dell’ente si concentra principalmente in operazioni botaniche mirate sul territorio, ma talvolta i suoi rappresentanti si attivano anche per proporre nuove normative di salvaguardia dell’ambiente.

“Siamo stati noi a suggerire al governo l’introduzione di un limite di 300 capi per fattoria”, ci racconta orgoglioso.

Nella regione di Komsomol’sky l’espansione delle sabbie è stata contenuta con l’innesto di una cintura di chusgun, un arbusto dal fabbisogno idrico contenuto le cui radici favoriscono la crescita di specie vegetali da pascolo.

Bembeev ci mostra con un entusiasmo commovente gli effetti benefici degli interventi sin qui condotti. Più avanti, in mezzo al saliscendi delle dune, indica una fattoria abbandonata. “Diverse aziende agricole della zona hanno chiuso i battenti a causa della desertificazione. Il nostro obiettivo è di strappare alle sabbie il terreno che le circonda per consentire alle attività produttive di ripartire, ovviamente con l’aiuto delle istituzioni”.

 

In Calmucchia lo Stato fornisce spesso infrastrutture e bestiame per ripopolare le aree critiche chiedendo in cambio il 50% dei ricavi. Una forma di accordo mutuata dal passato e che, non a caso, viene ancora chiamata colloquialmente sovchoz, come negli anni sovietici.

Ma le agevolazioni fiscali del governo, gli sforzi degli enti statali e l’impegno dei singoli cittadini, da soli, non riescono a essere decisivi e a risollevare le sorti di questo remoto deserto europeo.