
Mare saccheggiato
Barça o Barzaq
La piroga scivola placidamente in acqua. Prima che si allontani troppo dalla riva Cheikh con un salto è a bordo, avvia il motore, e in breve tempo siamo fuori dalla piccola baia che racchiude la spiaggia di Ouakam, a Dakar. La luce del primo pomeriggio è ancora molto forte ma il mare è calmo. Sembra stanco come i pescatori che ne solcano le acque da una vita. “Oggi non c’è più rispetto per il mare”, mi dice Cheikh Tidiane Cissé mentre alle nostre spalle la riva si fa sempre più lontana, “metodi di pesca aggressivi, sabotaggi, cambiamento climatico, ci sono troppe piroghe e ci sono le barche straniere che fanno ciò che vogliono”. All’ingresso della baia ci sono diverse piroghe di grandi dimensioni all’ormeggio. Troppo grandi per essere issate a riva. “Con quelle restano in alto mare per settimane, anche per più di un mese”, esordisce Cheikh, quasi cogliendo i miei pensieri dal mio sguardo.
Sono anche le piroghe comunemente usate da chi tenta la via del mare verso la Spagna. Cheikh è pescatore fin da quando all’età di dieci anni lasciò la scuola per andare a lavorare. Espressione amichevole e occhi stanchi, come molti viene da una famiglia di pescatori da generazioni. La piroga su cui ci troviamo, oramai al largo, porta il nome di suo padre. “La famiglia ti guarda. Non c’è niente da mangiare. Cosa fai a questo punto? Rischierai! Se ci riesci, bene, se muori, sei sicuro che è finita. Si vince o si perde. Ecco perché si dice ‘Barça o Barzaq’. Significa rischiare tutto, perché siamo stanchi morti, non sappiamo più cosa fare”. Non c’è pescatore in Senegal che non conosca quest’espressione; “Barça o Barzaq”, dove Barça sta per Barcellona, che per estensione sottintende alla Spagna. Barzaq è la fine, il capolinea, l’aver dato il tutto e per tutto, e sei morto nel tentativo. Una sorta di “o la va o la spacca”, per intenderci.

Poca chiarezza e pochi controlli
Con una costa di 718 km, il settore della pesca fornisce un contributo significativo all’economia del Senegal, e almeno due milioni di persone vivono del mare. Le attività di pesca illegale non regolamentata e non dichiarata (INN), e un’industria della pesca opaca, minacciano la sicurezza alimentare e il sostentamento di una vasta porzione della popolazione. Secondo la FAO, l’industria della pesca contribuisce per quasi l’1,8% al PIL del paese e i posti di lavoro connessi sono ufficialmente 600.000, anche se nei fatti il numero è ben maggiore. Ciò la rende uno dei pilastri dell’economia nazionale. Ma ancor prima che economico, la pesca è un è elemento culturale e identitario su cui si fonda la variegata società senegalese. Molte comunità costiere, quasi sempre appartenenti all’etnia lebou, fanno affidamento su di una pesca di tipo artigianale come unico mezzo di sussistenza.

Le tecniche di pesca adottate in Senegal si fondano infatti sull’uso di diversi tipi di piroga e in generale non sono meccanizzate. Il che significa che la pesca tradizionale non può in alcun modo competere con la pesca industriale meccanizzata tipica dei paesi occidentali. Per dare un riferimento, ogni mega peschereccio può pescare in un anno fino a 20mila tonnellate di pesce. È circa quanto 1.700 piroghe senegalesi riescono a pescare nello stesso periodo.
“In una sola volta, in una sola settimana di pesca, possono caricare circa 2000 tonnellate di pesce”. Ramatoulaye Diallo, una signora dalla corporatura asciutta e dai modi accoglienti e gentili, è la presidente del CMES (Collettivo Marittimi Esportatori del Senegal). L’associazione riunisce compratori e esportatori del settore ittico senegalese, e si occupa di affrontare i problemi della pesca e le relative questioni commerciali, delle risorse, e di ciò che è legato alle comunità costiere. “Il settore della pesca è una lunga catena. E noi siamo una parte, un segmento di questa catena. La nostra attività principale è l’acquisto del pesce”.

In questo settore da più di 18 anni, mi racconta che nel corso degli ultimi dieci c’è stato un aumento esponenziale di pescherecci stranieri al largo delle coste senegalesi. La diminuzione delle scorte ittiche e la quasi scomparsa di alcune specie ne è strettamente collegata. Nella maggior parte dei casi le accuse di sfruttamento indiscriminato sono rivolte alle imbarcazioni provenienti da Cina e Russia. “Queste flotte danneggiano il mare, persino il fondale, perché usano reti non consentite, e non rispettano le zone protette”, mi racconta mentre parliamo nello spazioso soggiorno di casa sua a Dakar. “A volte catturano indiscriminatamente esemplari ancora troppo giovani e non va bene. Per loro non è nemmeno fonte di guadagno. Li ributtano in mare. Stanno danneggiando l’ecosistema dove i pesci più giovani si nascondono per crescere e riprodursi. Inoltre, non rispettano le miglia oltre cui dovrebbero operare e si avvicinano alle coste”.

In Senegal c’è infatti un enorme problema relativo ai controlli e alle regolamentazioni. Secondo Diallo per quanto è possibile sapere le imbarcazioni europee sono generalmente abbastanza rispettose delle norme in vigore. Quando scaricano il pescato, è possibile vederne la tracciabilità. Ma quando si tratta di imbarcazioni dalla Cina la situazione si complica. “Arrivano qui come formiche, non ci si può credere”, aggiunge Diallo. “Pescano qualsiasi cosa vogliano. Quando scaricano, non si sa cosa ci sia nelle scatole perché non c’è alcuna etichetta, solo numeri”. Quando il pesce viene scaricato dalla navi infatti, la numerazione non è univoca per ogni barca. Ciò significa che su dieci barche si possono riscontrare dieci diverse numerazioni che si riferiscono al pesce contenuto nelle scatole e alla sua provenienza. Il che complica una situazione già fumosa. Le poche volte che una nave è colta nel commettere un’infrazione e viene multata, la somma non costituisce in assoluto un deterrente. Per fare un esempio, se una nave viene fermata a pescare illegalmente può venire multata per 100,000 dollari. Ma cosa sono 100.000 dollari per un grosso peschereccio che ogni dieci giorni cattura qualcosa come 2000 tonnellate, dal valore di circa 10 milioni di dollari?

“Purtroppo manca la volontà politica di rendere più sicure le comunità costiere”, mi dice il Dr. Aliou Ba, responsabile della campagna Oceani per Greenpeace Africa. “Ciò che avviene è che alcuni paesi o imbarcazioni non hanno licenze di pesca e non hanno accordi di pesca con il Senegal. Persone di altri paesi vengono qui e aprono una società mista insieme a qualcuno del posto per avere accesso al settore della pesca senegalese”. Il Dr. Ba mi conferma che questi sotterfugi sono stati più volte segnalati alle autorità. Nella maggior parte dei casi la nave appartiene ad armatori asiatici o europei. Queste società miste non dovrebbero quindi essere autorizzate a pescare in acque senegalesi, “ma purtroppo oggi la maggior parte delle imbarcazioni industriali si trova in questa situazione”, prosegue.

In Senegal le persone sono tradizionalmente abituate a consumarne quasi ogni giorno. Rappresenta circa il 70% dell’apporto di proteine. Quindi, se il pesce non sarà più disponibile o di più difficile accesso, il Paese rischia di affrontare una grave situazione di insicurezza alimentare. Inoltre quando in Senegal c’è un divieto di pesca riguardo una specie ittica, lo stesso non vale per un paese vicino. Ciò lascia spazio a scappatoie che aiutano gli armatori a pescare ciò che vogliono, nonostante alcune specie non siano previste nei loro contratti. “Supponiamo che si conceda il contratto di pesca a una flotta straniera”, mi spiega Diallo, “se il Senegal ha vietato per esempio il polpo, non possono catturarlo in acque senegalesi. Ma se non c’è lo stesso divieto nelle acque mauritane, possono dire che siccome in Mauritania la loro licenza lo prevede, l’hanno pescato prima di entrare in acque senegalesi. Come si fa provare il contrario? Semplicemente non si può”.

Tensione tra le comunità locali
Il settore della pesca è una catena formata da una successione di elementi strettamente connessi l’uno all’altro. E tutto ruota ovviamente attorno alla disponibilità di pesce. Ci sono i pescatori artigianali che vanno a pescare e, quando tornano a riva, consegnano il pescato ai commercianti di pesce che acquistano il prodotto e che spesso riforniscono i mercati locali. Poi ci sono le donne trasformatrici che acquistano il pesce per lavorarlo – spesso essiccandolo o affumicandolo – e riforniscono anche Paesi che non hanno accesso diretto al mare come il Mali. Già da tempo la scarsità di pesce ha intaccato gli equilibri di questo sistema. Le trasformatrici non hanno più sufficiente materia prima da lavorare, e sono costrette a reperirne a prezzi più alti dai grossisti, i quali sono in grado di conservarlo più a lungo.

Le lavoratrici senegalesi sono rinomate in tutta l’Africa occidentale e ricevono pesce anche da altri paesi come il Ghana perché venga da loro lavorato. Ma poco pesce significa prima di tutto colpire il primo anello di questa catena, costituito ovviamente dalle centinaia di migliaia di pescatori. Oramai molte delle piroghe che si vedono adagiate sulle spiagge del Senegal, quando non sono lo spettro di chi è partito da tempo o ha abbandonato l’attività, sono sempre più spesso un mezzo di speranza per quanti tentano di arrivare in Europa, inseguendo un miglior futuro per le proprie famiglie e animati dalla convinzione di non aver nulla da perdere. Quanti rimangono si sentono sconfitti, ma troppo legati al mare e alla pesca per anche solo immaginare di fare qualunque altra cosa. C’è chi prova a opporsi e affrontare le grandi imbarcazioni quando sorprese a pescare illegalmente. Ma se si tratta di una nave lunga più di 120 metri, una piroga quando le si avvicina si fa davvero minuscola. Non costituisce certo una minaccia.

Spesso gli equipaggi di questi grandi pescherecci sparano contro le piroghe forti getti d’acqua o cercano di creare vortici in mare per farle ribaltare. Ciò genera non poche situazioni di pericolo, quando non sfociano direttamente in incidenti. Anche se le comunità costiere del Senegal sono quasi tutte strettamente legate al mare e alla pesca, ci sono alcuni centri maggiori da cui proviene il pesce che viene poi venduto e consumato nel paese, oltre che esportato verso i paesi confinati. Tra questi vi sono sicuramente Saint Louis, Kayar, Mbour, Yoff, Soumbédioune, Joal e Djiffér. Ognuno di questi centri, grossi villaggi sul mare, ha una propria regolamentazione per quanto riguarda le tecniche di pesca. La scarsità di pesce spinge molti pescatori a percorrere grandi distanze verso zone di pesca di altre comunità. Ciò porta sempre più spesso a conflitti tra gli stessi pescatori.

Presso Kayar si è verificato uno di questi episodi proprio nei giorni in cui mi trovavo al lavoro in Senegal, e ha portato alla morte di un giovane. Ramatoulaye Diallo mi racconta che a quanto pare, alcuni pescatori sono arrivati da Saint Louis, nel nord del Senegal, portando con sé le reti in monofilamento. Sono reti vietate, che quando vanno alla deriva in mare continuano a pescare catturando qualsiasi cosa. Sono una minaccia per i pesci e per l’oceano. Quando i pescatori di Kayar se ne rendono conto ne deriva uno scontro tra pescatori in mare. Quello interno alla comunità dei pescatori è un conflitto che danneggia l’intera comunità e nasce da una situazione assai tesa, dove in molti si competono risorse sempre più scarse.

Sempre a Kayar è presente una grossa fabbrica di farina e olio di pesce. Queste utilizzano pesce fresco e commestibile nella produzione e che, in gran parte esportato in Europa e in Asia, serve per nutrire altri animali. Soprattutto come cibo per altri pesci allevati in modo intensivo. Il che suona chiaramente come un controsenso. Si usano pesci sottratti alle comunità delle zone da cui provengono, che invece di nutrirne la popolazione servono per produrre cibo per altri pesci allevati a migliaia di chilometri di distanza. Si tratta quindi di un uso delle risorse che va a scapito delle popolazioni locali, che non possono utilizzarle per il proprio sostentamento.

Cosa aspettarsi dal futuro
Il governo del Senegal pare passivo di fronte a una questione così strutturale per il paese. A differenza di altri paesi costieri come la Mauritania, i dati disponibili sulla quantità di navi straniere in attività e di contratti di pesca sono pochi e inaffidabili. “Abbiamo dei dati. I pochi disponibili sono in internet. Ma sono dati realistici?”, si domanda la signora Diallo. “Perché qui abbiamo una nave con cui veniva effettuando il controllo delle attività in mare. Ma è inattiva da due o tre anni perché fuori servizio. Quindi qualsiasi dato possano fornire non può certo essere accurato.”

Sempre secondo Diallo, ma come ho riscontrato in più di un’occasione parlando con diversi pescatori e lavoratrici del pesce, il problema della pesca in Senegal può essere affrontato in due modi: in primo luogo riducendo le imbarcazioni industriali, mettendo in campo migliori e più efficaci controlli dei metodi di pesca e delle licenze. Con reali deterrenti come multe e carcere in caso di gravi infrazioni. In secondo luogo, riorganizzare l’attività della pesca artigianale in Senegal. Lavorare sui pescatori, con i pescatori. Favorire il dialogo e la comunicazione tra centri di pesca diversi cercando di prevenire i conflitti. Evitare che si verifichino altri episodi come quanto successo a Kayar.

Evitare che i pescatori senegalesi in primis non impieghino metodi di pesca dannosi per l’ambiente marino. E poi sicuramente introdurre aree marine di ripopolamento, dove nessuno possa pescare per un certo periodo, soprattutto le grandi imbarcazioni. Oppure lo stop temporaneo alla pesca di alcune specie per far si che il loro numero torni a livelli compatibili con le attività di pesca. Ma nonostante sia chiaro a tutti cosa servirebbe fare, c’è da chiedersi se verrà mai fatto qualcosa di strutturale per frenare il saccheggio e l’impoverimento dei mari.

“Non voglio essere pessimista, ma non prevedo un futuro positivo per la pesca in Senegal”, confessa Ramatoulaye Diallo. “Perché non ho visto alcuna politica pensata per invertire questa tendenza negativa e, più tempo passa, peggio vanno le cose. Ma c’è ancora tempo per agire. Ma bisogna agire ora. Non domani, non l’anno prossimo, non il mese prossimo. Bisogna agire in questo istante mentre stiamo parlando”.

Cheikh Cissé sembra fare eco alle parole della signora Diallo. “Dobbiamo proteggere il mare. Perché il mare, come dite voi bianchi, è il diamante blu. Ma qui in Africa la gente non rispetta le regole del mare. Ognuno fa quello che vuole. Non dipende dai pescatori, è lo Stato che ha il dovere di sorvegliare le attività, le specie vietate, quello che si fa in mare. Questo è il ruolo di uno Stato. Controllare il mare, punire”.

Il sole picchia meno e ha iniziato la sua discesa verso l’orizzonte quando il giovane aiutante di Chekh salpa l’ancora. La piroga si dirige nuovamente verso la costa di Dakar, scivolando morbidamente su di un mare privo di onde.

A riva alcune persone accorrono ad aiutare a issare la piroga che tornerà a inserirsi fra le decine e decine di altre simili che affollano la spiaggia di Ouakam. Mentre viene scaricato il pesce rifletto su quanto sia stretto il legame tra questa gente e il mare. “Bisogna guadagnarsi da vivere”, dice Cheikh.