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Un cielo da Golgota, un mare apocalittico e due lapidi di ragazzi di 21 e 22 anni morti mentre cercavano di attraversare il Canale della Manica a bordo di un gommone. Nella città francese di Calais, a soli di dieci giorni di distanza dal 24 novembre, quando 27 persone (17 uomini, 7 donne e 3 bambini) hanno perso la vita affondando con una periclitante imbarcazione nelle gelide e burrascose acque del Mare del Nord, non sembra essere rimasto altro a testimonianza della peggior tragedia di sempre avvenuta nel braccio di mare che separa le coste inglesi da quelle transalpine.
La polizia, dopo l’incidente, ha sgomberato i principali campi dei migranti e nelle vie del centro non si incontrano più uomini e donne provenienti da Siria, Iraq, Kurdistan, Senegal e Nigeria, arrivati ai confini estremi del continente europeo per cercare in tutti i modi di raggiungere l’Inghilterra. Il fenomeno migratorio dalla Francia alla Gran Bretagna, che nel 2021 ha raggiunto livelli record con oltre 26mila persone che sono riuscite a raggiungere le coste inglesi, in apparenza, si è improvvisamente interrotto e le misure politiche adottate da Londra e Parigi e l’incommensurabile tragedia del naufragio, a un primo sguardo, sembrano aver messo fine all’esodo umano e alle disperate e corrive utopie di migliaia di profughi.
Il Natale è alle porte e ai piedi della torre del municipio transalpino, così come nelle centrali rue Royal e Places des Armes si osservano addobbi e installazioni. L’odore che si diffonde dalle panetterie e dai negozi alimentari, per le strade di Calais, è quello carezzevole e fruttato dei dolci e del vino caldo. Gli alberi natalizi, i luccicanti manifesti pubblicitari e i cittadini che escono dai negozi con pacchetti regalo tra le mani descrivono il fiabesco clima delle feste, e una nepente calma alberga nella cittadina di mare. Tutto questo però è solo un aspetto della realtà, un racconto estrinseco e immediato. Al di là dello sguardo e delle luminarie, nascosto nelle periferie, sotto i ponti delle autostrade, lontano dalle eburnee vetrine che ripropongono renne e slitte natalizie, e al riparo dalle ronde della polizia, si incontra invece l’irremovibile e ostinato popolo delle migrazioni.
Dopo il naufragio, gli uomini che albergavano tra i campi e le sterpaglie che si protendono sino al Mare del Nord, non hanno abbandonato chimere e illusioni, non hanno ripercorso a ritroso la strada che li ha condotti dal Medio Oriente e dall’Africa sino alle estreme propaggini dell’Europa, si sono semplicemente nascosti, riparati e acquattati in nuovi accampamenti più piccoli e meno organizzati, per pianificare, con l’ostinazione di chi non può concedersi il lusso dei ripensamenti, la prossima partenza verso il Regno Unito.
Poco distante dall’area industriale di Calais, vicino ai capannoni delle aziende logistiche, ci sono i binari morti di una vecchia ferrovia. Circondate da alberi e travolte dal fango, queste rotaie di ieri sono divenute oggi il rifugio di centinaia di uomini che, dopo gli sgomberi di fine novembre, qua, hanno costruito i loro nuovi giacigli. La terra, ridotta dall’acqua a un poltiglia melomosa, investe tutto il piccolo accampamento, l’afrore di plastica bruciata rende l’aria irrespirabile, la pioggia e il vento non smettono di sferzare il campo, il freddo penetra nelle ossa e, nel buio della sera, le uniche luci sono quelle dei piccoli falò che punteggiano, intermittenti e regolari, le traversine della ferrovia.
È avvicinandosi a questi fuochi che, improvvisi, appaiono, come in un quadro barocco, i volti di dozzine di uomini. Hanno rughe profonde come ferite e occhi febbricitanti, mani di pietra e callose, piedi fasciati con diverse paia di calze dentro scarpe di tela ormai consumate e fradice. Indossano tutti giacche a vento logorate e strappate dai rovi, maglioni di lana appesantiti dall’umidità e in pochi hanno voglia di parlare, i più vivono prigionieri dei ricordi e dell’attesa infinita che li circonda.
Chi è riuscito a caricare il telefono, sfruttando un piccolo generatore a benzina, invia messaggi alla famiglia e prova a informarsi sulle mareggiate e sui venti dei giorni a venire; indispensabili informazioni per pianificare una partenza. Mohamed ha 20 anni, è curdo, proviene dalla Siria, il suo viaggio è incominciato due anni fa, ha attraversato la Turchia, si è affidato ai trafficanti di uomini durante la rotta balcanica e ora, mentre asperge della benzina sulla legna per farla bruciare più velocemente racconta: ”Il naufragio è stata una tragedia, ma qua tutti siamo disposti a morire per raggiungere l’Inghilterra. Là c’è il lavoro, là possiamo vivere. Io non tornerò mai nel mio Paese. Sono disposto a tutto pur di raggiungere la Gran Bretagna, anche a morire. Non ho più alternative e non ho niente da perdere, se voglio una vita vera devo rischiare e arrivare in Inghilterra”.
Sono racconti incendiati dal carburante della miseria e delle disperazione quelli che la sera echeggiano attorno ad ogni fuoco. Tutti i rifugiati che si incontrano, siriani e ugandesi, nigeriani e afghani, curdi e gambiani, giovani e anziani, confidano di avere un unico desiderio comune: partire quanto prima e raggiungere le coste britanniche. Nessuno rivela chi organizza le partenze e chi prepara la barca, ma ognuno spera soltanto che l’indomani possa essere il suo giorno propizio per provare a raggiungere il sogno.
Con le prime luci dell’alba l’accampamento si svela poco a poco e appare come un campo di battaglia nel momento in cui cessa il clangore delle armi. Colonne di fumo si levano dai bracieri spenti della sera prima, tra i resti degli avanzi di cibo caracollano decine di topi, alcuni uomini trasportano, con dei carrelli della spesa, scatolame e bottiglie d’acqua e nell’accampamento sopraggiungono anche i volontari dell’organizzazioni umanitarie locali con viveri, tende e coperte. La giornata, per centinaia di uomini, trascorre in un limbo di attesa e di ricordi. C’è chi prova a chiamare a casa, chi cerca un appiglio contro fatalismo e rassegnazione guardando le foto dei figli e chi rivolge a Dio preghiere e suppliche affinché, con il calare dell’oscurità, possa finalmente prendere il largo e inseguire il suo destino, in silenzio, su una barca, e con il mare e il cielo come unici testimoni e giudici.
Nuvole nere si addensano però all’orizzonte, di nuovo, onde iraconde sferzano scogli e spiagge e per un altro giorno ancora chiunque non può far altro che attendere. Il campo sprofonda in un silenzio incongruo, le meglio gioventù dell’Africa e del Medio Oriente sono raccolte in un’angoscia muta e tutti restano sospesi nella loro condizioni di esuli e fuggiaschi a cui non è rimasto altro nella vita se non una scommessa con il destino da compiere chissà quando e chissà come.
Un’altra sera ancora cala sull’accampamento di Calais e Mohamed si allontana lungo i binari per andare a cercare della legna da ardere durante la notte. Avanza lentamente l’ex studente universitario originario del Kurdistan siriano, e più si allontana più la sua figura diventa piccola, e anche il binario, in prospettiva, appare sempre più stretto e alla fine la sua immagine si riduce a metafora della sua stessa esistenza.