Il fattore fede è indubbiamente uno dei più rilevanti nella corsa alla Casa Bianca nel Paese che oscilla tra materialismo e fondamentalismo. Così come è noto il legame, indissolubile, tra il mondo evangelico e i conservatori a stelle e strisce. Il revival fondamentalista evangelico ha cominciato ad avere una certa consistenza durante la presidenza Reagan, dibattendo sulle principali moral issues che dividono il Paese. Il trionfo più recente è avvenuto però nell’era di Bush Jr., protagonista di una personale rinascita spirituale che ha portato noti esponenti del mondo evangelico direttamente nello studio ovale.
L’effetto evangelico si confermerà anche in questa strana corsa elettorale verso il prossimo 3 novembre?
L’appoggio degli evangelici alla presidenza Trump
Appena eletto, Donald Trump sembrò galvanizzare la destra evangelica americana che arrivò a scomodare toni messianici per descrivere il nuovo presidente. La sua candidatura gli vide accanto Jerry Falwell Jr, il presidente della Liberty University in Virginia, un ateneo di stampo evangelico, figlio del “mitico” predicatore televisivo Jerry Falwell che negli anni Ottanta raccolse un milione e mezzo di sostenitori con il programma Old Time Gospel Hour. Ma le manifestazioni di giubilo per il presidente predestinato a fare grande l’America again sono continuate, come dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani, quando Paula White, telepredicatrice a capo del Faith Advisory Board di Trump e tra i principali esponenti della teologia della prosperità, lo definì “Un grande padre. Un grande marito. Una persona leale. Un patriota: se gli fate un taglio, ne uscirà del sangue rosso, bianco e blu. È un uomo che mantiene le promesse. È competitivo, ma compassionevole. È un uomo che ama Dio, la famiglia, le persone e, soprattutto, si batte per gli Stati Uniti ed è un campione della fede”.
Ed è proprio su questi fedelissimi (il presidente è stato votato dall’81% degli elettori cristiani evangelici, una percentuale superiore a quelle di Mitt Romney, John McCain e George W. Bush) che la presidenza Trump cerca ancora di fare affidamento per strappare l’America a Joe Biden, accusato più volte di essere un “senza Dio”. La strategia è vecchia come le montagne: fare appello agli evangelici della nazione utilizzando un’agenda politica avvolta nel linguaggio della fede. Trump ha iniziato a utilizzare questo stile oratorio durante la campagna del 2016 e ha continuato per tutto il suo mandato. Ha costantemente affermato che le persone di fede sono “sotto assedio”, un linguaggio che fa eco a un adagio tipico dei leader evangelici. Ha anche promesso di “distruggere totalmente” l’emendamento di Johnson che vieta alle organizzazioni senza scopo di lucro come le chiese di appoggiare o opporsi a determinati candidati. Last, but not least, è diventato il primo presidente in carica a parlare all’annuale manifestazione antiabortista March for Life.
Gli evangelici: un mondo complesso in continua evoluzione
Pensare al mondo evangelico come una realtà omogenea e totalizzante è un grande errore: sono profondamenti diversi per background, geografia e denominazione. L’altro errore è pensare che gli evangelici siano gli stessi nel tempo: uno dei temi caldi in fatto di scelte morali, l’aborto, ne è la prova. L’opposizione all’aborto non è una posizione tradizionale degli evangelici, che in passato si sono dichiarati favorevoli in casi particolari come stupro e incesto: non solo, è alquanto singolare che i cristiani evangelici abbiano sostenuto Trump, che alla fine degli anni Novanta si dichiarava favorevole. Il tycoon, inoltre, ha un passato nel business dei casinò, che gli evangelici considerano un’attività moralmente riprovevole.
Un tempo paladini dell’identità della nazione statunitense e del suo ruolo quasi missionario nel mondo globale, alcuni di loro, oggi, sembrano aver abbandonato le passioni internazionali. Il male non è più percepito all’esterno: non è più l’axis of evil o gli stati canaglia ma piuttosto i liberali americani e la sinistra. Non a caso, proprio in questa campagna, ricorrono più che mai i toni da red scare.
Nel mondo evangelico, tuttavia, esiste anche un binario parallelo che non simpatizza per lo sconfinamento del loro credo in politica. Molti celebri esponenti come Mark DeMoss (un altro pezzo grosso della Liberty University) ha sempre tacciato Trump di “politica dell’insulto” mettendone in dubbio la statura morale. Tra gli evangelici, inoltre, serpeggia un ritorno alle origini, condensato in un avvertimento lanciato nel 1950 dall’allora presidente della Nae (National Association of Evangelicals) Stephen Paine, secondo cui gli adeptidovrebbero essere cauti nei confronti del crescente impegno con il Governo. Il rischio è che lo stato occupi “il posto che dovrebbe essere il Signore” senza, peraltro, fornire loro risposte politiche reali: un avvertimento che riecheggia chiaramente nella campagna del 2020.
Gli evangelici che abbandonano Trump
Dapprima erano stati gli esponenti della Convenzione Battista del Sud (oltre 14 milioni di fedeli), tradizionalmente conservatori, ad insorgere contro le connivenze fra Repubblicani e suprematismo bianco. Questi ultimi avevano bollato il suprematismo come “schema del diavolo” pochi giorni fa, dopo l’invito del presidente Usa Donald Trump agli attivisti di estrema destra a stare indietro e stare pronti dopo il primo dibattito fra i due candidati alla Casa Bianca.
Inoltre, in vista del prossimo 3 novembre, quasi duemila leader religiosi hanno dichiarato il proprio appoggio a Joe Biden. Nelle elezioni del 2016, oltre l’80% degli evangelici bianchi (che, a loro volta, costituiscono circa un quarto dell’elettorato statunitense) ha votato per Trump, chiudendo un occhio sul suo comportamento personale e auspicando scelte conservatrici e pro-life. Un sondaggio condotto il mese scorso per conto di Vote Common Good in cinque stati chiave ha rilevato un’oscillazione di 11 punti tra gli elettori evangelici e cattolici verso Biden. A luglio il Public Religion Research Institute ha riscontrato un calo di sette punti nel sostegno dei cristiani bianchi a Trump, e un sondaggio di Fox News ad agosto ha mostrato che il 28% degli evangelici bianchi ha appoggiato Biden, rispetto al 16% che ha sostenuto Hillary Clinton nel 2016.
Tra questi ha fatto scalpore il caso dei Pro-life Evangelical for Biden. Sulla loro piattaforma si legge del loro essere in disaccordo con la politica pro-aborto dei democratici ma che, sapendo che la ragione più comune per cui le donne ricorrono all’aborto è la difficoltà finanziaria, apprezzano le proposte democratiche che allevierebbero in modo significativo tale onere: servizi sanitari accessibili per tutti i cittadini, assistenza all’infanzia a prezzi accessibili, un salario minimo che solleva i lavoratori dalla povertà. Per questi motivi, sostengono che, a conti fatti, le politiche di Joe Biden siano più coerenti con l’etica della vita di forma biblica rispetto a quelle di Donald Trump. “Pertanto, anche se continuiamo a sollecitare diverse politiche sull’aborto, esortiamo gli evangelici ad eleggere Joe Biden come presidente “, così recita la homepage del loro sito.
Il problema con gli evangelici è anche di tipo generazionale. I giovani evangelici, sebbene meno settari su temi morali, non accettano sconti sulle nuove emergenze come quella climatica. Sono parte della generazione Z, l’ultima generazione di elettori americani. Insieme ai Millennial, questi giovani americani hanno maggiori probabilità di credere che gli esseri umani siano in gran parte responsabili del riscaldamento globale e che il governo federale stia facendo troppo poco al riguardo. Il loro gruppo di pressione più autorevole è la Young Evangelicals for Climate Action (Yeca), fondata da un gruppo ristretto di studenti evangelici e giovani professionisti in un ritiro di pianificazione convocato dalla Evangelical Environmental Network a Washington nel febbraio 2012. Forti del loro impegno contro il riscaldamento globale e decisi a sensibilizzare i loro fratelli di fede senior, sono quelli che promettono di dare battaglia alle urne e di spezzare il connubio con i Conservatori.