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É il fiore all’occhiello della strategia diplomatica di papa Francesco e del segretario di Stato e cardinale Pietro Parolin, ma ora rischia di essere messo in discussione da avvenimenti concreti. Le buone intenzioni, insomma, potrebbero non corrispondere alla sostanza. L’accordo tra Vaticano e Cina, che doveva essere biennale e che è  stato rinnovato in maniera più o meno tacita (com’era pronosticabile) per un altro biennio, ha contraddistinto questo pontificato. Se non altro perché quel patto si basa su una stretta indicazione del pontefice argentino: dialogare con la Repubblica Popolare cinese, che potrà non essere una delle “periferie economico-esistenziali”, ma che è di sicuro periferica per il cattolicesimo e per le sue istituzioni.

L’accordo, che è stato contestato sin dal principio dal fronte conservatore, prevedeva che il Vaticano potesse finalmente nominare vescovi riconosciuti da ambo le parti ed istituire nuove diocesi. In cambio, per così dire, il Papa sarebbe dovuto passare dall’equivalente della Conferenza episcopale cinese, che secondo i tradizionalisti è un organo controllato dal Partito comunista cinese. Il trattato però non è mai stato pubblicato: dunque si può solo ipotizzare quale sia il suo contenuto. Il Papa, inoltre, sarebbe stato riconosciuto in qualità di legittima guida spirituale dei cristiano-cattolici cinesi. Un patto complesso, che pareva in grado di risolvere anni di ragionamenti attorno al da farsi con la “questione cinese”. Bergoglio, prima dell’avvento della pandemia, aveva anche dichiarato di avere in programma un viaggio a Pechino o comunque di desiderare quella visita apostolica. E non si esclude che il pontefice venuto “dalla fine del mondo” possa essere davvero il primo a mettere il piede sul suolo cinese in qualità di vescovo di Roma e di supremo vertice della Chiesa cattolica.

Un piccolo momento di frizione si è verificato quando Jorge Mario Bergoglio ha tuonato contro la persecuzione subita dagli uiguri. Durante il novembre del 2020, si è parlato apertamente di “strappo”. L’ex segretario di Stato Mike Pompeo ha elogiato il pontefice in quella circostanza, rimescolando le carte della partita geopolitica. Ma l’oggetto della riflessione oggi è divenuto soprattutto un altro, ossia il reale rispetto dell’accordo da parte della Repubblica popolare cinese e delle sue istituzioni. La “destra ecclesiastica” segnala da tempo come i cinesi non abbiano creato un clima di pacificazione attorno ai fedeli cristiano-cattolici che risiedono in Cina. E chi ritiene che esista una “Chiesa sotterranea” rivendica il ruolo svolto da chi continua a professare la fede in barba alle presunte restrizioni che Pechino avrebbe imposto. Comprendere quale sia la realtà delle cose non è un esercizio facile.

Secondo quanto ripercorso da Il Corriere della Sera, già oggi sarebbe possibile fotografare “arresti, minacce e divieti”. La comunità cattolica cinese continuerebbe insomma a subire quel processo di “sicinizzazione”, cioè l’assorbimento della dottrina cristiana nell’ideologia comunista, dopo aver subito un processo culturale di revisione dei canoni, dello stile e delle regole contenute. Gli episodi, anche di negazione della libertà di culto, sarebbero quotidiani, e dunque ci si interrogherebbe sulla reale concordanza tra quanto previsto nel trattato stipulato e quello che avviene davvero ai cattolici all’interno dei confini della Repubblica popolare cinese. Cosa potrebbe comportare un mancato rispetto del patto? Dipendesse dal fronte conservatore, l’accordo biennale, che biennale non è più, non sarebbe mai stato stipulato. Perché la via scelta, per esempio dal cardinale Joseph Zen, sarebbe quella di attendere un’involuzione del comunismo, meglio una sua caduta, per partecipare in quanto cattolici alla ricostruzione. La visione Bergoglio-Parolin è ed è stata un’altra.

Di mettere mano o di revisionare l’accordo biennale non se ne parla: è molto difficile che il Vaticano rinunci al cammino dialettico intrapreso o faccia un passo indietro. Anzi, se c’è un attore che è stato sospettato di ragionare sulla bontà e sull’opportunità del trattato, quell’attore risiede a Pechino e dintorni. La sensazione è che Jorge Mario Bergoglio non abbia rinunciato alle sue “velleità cinesi”: il viaggio desiderato non è in programma, ma potrebbe essere tra i primi ad essere calendarizzati nel caso in cui le condizioni pandemiche lo consentissero.

Per la “destra ecclesiastica” la situazione è stigmatizzabile: i vertici della Santa Sede osserverebbero inermi, mentre il governo di Pechino continuerebbe a perseguire una strategia precisa che minerebbe alla base le fondamenta stesso della confessione religiosa cristiano-cattolica. L’ultimo episodio – come ha raccontato Asia News – riguarda una multa comminata ad un fedele che avrebbe avuto l’ardire di ospitare un vescovo nella sua cappella privata. L’accordo bilaterale, insomma, sembra assumere le fattezze di una speranza unilaterale del Vaticano.

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