“Nel mondo milioni di cristiani continuano a vivere emarginati, in povertà, ma soprattutto discriminati e in pericolo. Dopo due anni di pandemia vogliamo tenere acceso un faro su questa oppressione e aiutare Aiuto alla Chiesa che Soffre Onlus a portare conforto e sostegno ai fedeli di tutto il mondo: in particolare coloro che vivono in Libano, Siria e India“
“Quando pensiamo al Libano, dobbiamo pensare all’Algeria: lì dove c’è stata di recente una guerra, la gente ha paura di ricadere nell’inferno”. A dirlo è Samir, studente libanese da anni a Roma e oramai ambientato nel nostro Paese. Il suo pensiero sintetizza una posizione comune tra molti analisti: il Libano, caduto nelle grinfie di una crisi economica senza precedenti, rischia seriamente di implodere a livello sociale e a salvarlo dagli scontri tra le 18 confessioni che lo compongono è molto probabilmente il ricordo della guerra civile terminata nel 1990. Quindici anni di scontri tra cristiani, sciiti, drusi e sunniti che hanno lasciato sul campo migliaia di vittime. E che nessuno vorrebbe ripetere. Ma lo spettro di nuovi contrasti, con l’aggravarsi della situazione, è dietro l’angolo.
Gli scontri di ottobre, molto più di un campanello d’allarme
La rotonda di Tayouneh è uno dei luoghi più emblematici di Beirut e dell’intero Paese. Si trova non lontano dal centro della capitale libanese e divide due quartieri: da una parte Ain Al Remmeneh, a maggioranza cristiano-maronita, dall’altra Chiyah, a maggioranza sciita. Qui scorre una strada che durante il conflitto civile era considerata una vera e propria “linea verde”, un fronte urbano delicato teatro di importanti scontri. Lo scorso 14 ottobre l’eco del rumore delle armi è tornato a farsi sentire. É successo quando durante una manifestazione organizzata da Amal ed Hezbollah, i due principali partiti sciiti, i partecipanti sono arrivati a Tayouneh. In quel momento colpi di pistola e di mitra hanno riportato le lancette dell’orologio indietro di più di trent’anni. Sull’asfalto sono rimaste almeno sei persone senza vita. In un primo momento si è parlato di scontri tra manifestanti ed esercito. Ma da parte sciita sono piovute accuse contro cecchini di milizie cristiane riconducibili a Samir Geagea. Uno dei protagonisti cioè del conflitto civile. In quegli anni era infatti tra i leader dell’ala militare delle Falangi libanesi. Lui ha smentito e ha rigirato le responsabilità sugli Hezbollah e sul presunto tentativo degli sciiti di destabilizzare il Paese.
Beneficiario: Aiuto alla Chiesa che Soffre ONLUS
Causale: EROGAZIONE LIBERALE – ILGIORNALE PER I CRISTIANI CHE SOFFRONO
IBAN: IT23H0306909606100000077352
BIC/SWIFT: BCITITMM
Per altre informazioni puoi consultare la scheda del progetto
Scontri e accuse reciproche. Il clima, nel bel mezzo di un’economia sostanzialmente fallita e dove è impossibile trovare i soldi per pagare il carburante, è tornato quello della guerra civile. Da qui i sospetti per una nuova stagione calda. Quella cioè dove gli scontri settari potrebbero definitivamente riportare all’inferno l’intero Libano. Il timore è molto forte. In una fase dove il 74% delle famiglie non ha reddito sufficiente per vivere dignitosamente, può bastare poco per far scoppiare la miccia e far insinuare il seme aspro dell’intolleranza. Il mosaico libanese è sempre più frastagliato. Antichi dissapori, vecchie recriminazioni e rancori mai sopiti tra le parti sono latenti. L’unica mossa dell’occidente in questi mesi, su input soprattutto della Francia, è stata quella di spingere per la nomina di un nuovo primo ministro dopo 12 mesi di vacatio. L’accordo tra le varie forze politiche è stato trovato sul nome di Najib Miqati, non proprio un volto nuovo.
Di quanto siano profondi i problemi nel Paese dei Cedri se n’è accorto per adesso soltanto il Papa. Bergoglio a giugno ha convocato una riunione a cui hanno preso parte almeno dieci capi delle Chiese cristiane in Libano. In Vaticano hanno forse ben presente la posta in gioco: se si continua a tacere, la questione non sarà sul se ma sul quando riprenderanno gli scontri religiosi. L’episodio di ottobre è quello più importante. E per il momento è (quasi) isolato. I cristiani però hanno paura. In caso di nuovi scontri, non passerebbe molto tempo prima di veder loro additata la responsabilità su disordini e caos.
Le speranze rivolte sulle nuove generazioni
Di scontri per la verità in Libano per adesso non ne mancano. Gli ultimi giorni di novembre sono stati caratterizzati da blocchi stradali e scioperi in tutte le principali città del Paese. Ma hanno un segno completamente diverso. Lo slogan più urlato nelle piazze è “Killon Yaani Killon“, ossia “Tutti vuol dire tutti”. A scandirlo sono soprattutto i più giovani, i più colpiti dalla crisi economica. Le loro frasi sembrano in qualche modo rassicurare. Le priorità per le nuove generazioni sono ben altre rispetto alle dispute settarie che hanno storicamente accompagnato il Libano. Manca il lavoro e manca ogni prospettiva futura. La miseria è talmente diffusa che forse non si ha nemmeno il tempo di pensare a recriminazioni e ritorsioni. E qui tornano alla mente le parole di Samir. C’è troppa paura e troppo malcontento nel Paese per tornare a prendersela gli uni con gli altri.
Le lotte, le faide, le accuse coinvolgono soprattutto la classe politica. A sua volta ancora legata, per ragioni anagrafiche e familiari, alle divisioni ereditate dal Libano dopo la guerra civile. Gran parte del Paese vuole altro. Vuole, in primo luogo, la normalità. Elemento quasi utopico a Beirut e dintorni. Per ottenerla, le nuove generazioni sembrerebbero ben disposte a lasciarsi il passato alle spalle.