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Non sparate sui giovani“: nelle scorse settimane ha fatto il giro del mondo l’immagine ritraente il coraggioso gesto di suor Ann Nu Thawng, la religiosa birmana che nella giornata dell’1 marzo è scorso  è scesa in strada nella città di Myitkyina, capitale dello stato Kachin, nel Nord del Myanmar, inginocchiandosi di fronte ai membri delle forze di sicurezza schierate in assetto antisommossa e supplicandole di non sparare sui giovani manifestanti, impegnati in proteste pacifiche. La religiosa della congregazione di San Francesco Saverio ha compiuto un atto umanamente coraggioso che testimonia, al contempo, una pervasiva missione sociale e politica per la Chiesa cattolica nel Paese dell’Asia orientale.

Nel Paese ferito dal golpe militare che ha posto fine alla discussa leadership dell’ex Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, annullato l’esito del voto del 2020 concluso con la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia e instaurato un nuovo governo guidato dal generale Min Aung Hlaing la Chiesa cattolica si è erta a fattore unificatore e a fautrice del dialogo. Di fronte a una repressione che ha prodotto più di 80 morti e colpito duramente la società civile birmana, la Chiesa ha provato a frenare l’offensiva della giunta contro i manifestanti, in larga parte pacifici, scesi in piazza.

L’8 marzo scorso, nella medesima città degli spari hanno sconvolto la cattedrale di San Colombano e portato all’uccisione di due giovani che vi si erano rifugiati all’interno per sfuggire alla repressione. Il ritorno al potere dei militari birmani ha accelerato, in questo contesto, l’accrescimento di un arbitrio politico che più volte in passato la Chiesa birmana ha pagato con il sangue a partire dalla nazionalizzazione da parte della giunta militare Ne Win (al potere dal 1962) dei beni ecclesiastici. La Chiesa birmana, forte di soli 450mila aderenti (l’1% della popolazione) è stata più volte una “cerniera”, soprattutto in ambito urbano come la capitale Yangon, tra la maggioranza buddhista e il resto della popolazione.

“Un ruolo essenziale, il suo, nella transizione democratica e da qui il coinvolgimento accolto e soprattutto offerto nel processo di ricostruzione nazionale e di riconciliazione, sempre al fianco dei gruppi più emarginati”, ha fatto notare Avvenire. “A partire dalle minoranze etniche la cui consistenza (il 35 per cento della popolazione complessiva), collocazione geografica e ruolo storico restano essenziali ma per troppo tempo misconosciuti”, e al cui interno molte comunità, dai Chin ai Keren, presentano importanti quote di cristiani. “L’oscurità non vince mai l’oscurità; solo la luce può dissipare le tenebre. La logica dell’occhio per occhio rende cieco il mondo”, ha detto in occasione della seconda domenica di Quaresima Charles Maung Bo, presidente della Conferenza episcopale birmana.

Una comunità piccola e combattiva come quella della cristianità birmana è stata capace di acquisire visibilità agli occhi del mondo intero. Era già successo nel 2017, in occasione della visita di Papa Francesco nel pieno del caos politico che avvolgeva il Paese per le persecuzioni contro i musulmani Rohingya che l’esercito portava avanti nelle regioni occidentali del Paese e contro cui il governo della San Suu Kyi sembrava a dir poco indifferente. Allora la voce dei cattolici, che aveva accompagnato l’ex Nobel per la Pace nella transizione democratica, non mancò di segnalare al Papa le problematiche nel trattamento della minoranza musulmana. Oggi, invece, è il governo deposto della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung a essere difeso indirettamente con la mobilitazione alla preghiera, alla riflessione e alla disobbedienza civile che atti come quello di Suor Ann incentivano. Bo, formalmente, tiene aperta la via del dialogo. Molti vescovi, ricorda Asia News, appoggiano esplicitamente le proteste.

Il direttore di quest’ultima testata, padre Bernardo Cervellera, ha organizzato nella giornata del 12 marzo online un incontro intitolato In comunione con il Myanmar” in cui Suor Ann ha potuto confrontarsi con un porporato importante della Chiesa italiana, l’arcivescovo di Bologna cardinale Matteo Zuppi, portando la voce dei birmani oppressi fino al nostro Paese. Non sfugge il fatto che un crescente coinvolgimento della Chiesa sia stato incentivato dal recente viaggio papale in Iraq, compiuto all’insegna dell’invito alla riconciliazione e della misericordia: uno spirito dialogante, quello di Francesco, che la Chiesa universale fa suo e in contesti difficili mette al servizio di progetti sociali e politici di distensione collettiva. A tesitmonianza del soft power che la Santa Sede mantiene e la Chiesa cattolica può utilizzare per prendere posizioni nette. Dietro la piccola, attiva comunità cattolica del Myanmar si stagliano le spalle larghe della Chiesa universale.

E lo spirito anti-autoritario e l’invito al dialogo dell’episcopato birmano richiamano la strategia geopolitica di Bergoglio, fautore del multilateralismo e dell’incontro tra i popoli.  Nonché sull’invito alla distensione e sulla comunicazione di un messaggio chiaro e concreto: la Chiesa di ogni Paese può contare sull’appoggio del Vaticano, e di conseguenza è da identificare, indipendentemente dalla sua dimensione, come una sua proiezione. Da questa consapevolezza deriva la spinta continua a un approccio che la voce forte e coraggiosa dei cristiani birmani vuole portare ora a un Paese ferito dal golpe e diviso da faglie etniche, sociali, religiose. Perché senza concordia la Chiesa birmana non ha garanzie di un’esistenza serena e pacifica. Al pari di tutto il suo popolo.

 

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