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La situazione delle Chiese ortodosse tra Ucraina e Russia era già complessa ma la guerra scatenata da Vladimir Putin rischia di compromettere a lungo termine il dialogo tra realtà ecclesiastiche che già presentavano dei distinguo evidenti ed ufficializzati.

Il fatto nuovo, in una dialettica che era stata interessata da uno scisma che risale a quattro anni fa, è che gli ortodossi ucraini stanno procedendo in maniera sempre più compatta, e in polemica accesa, per usare un eufemismo, rispetto alle posizione assunte da Mosca sulla guerra, facendo sì che sempre più chierici e fedeli ucraini abbandonino Kirill, le sue argomentazioni ed il suo patriarcato. Anche se non soprattutto per via di una sorta di effetto attrattivo dipeso dalle mire espansionistiche del vertice del Cremlino, le cronache riportano, sempre più, di preti ortodossi che abbracciano la causa nazionale ucraina, abbandonando la loro dipendenza gerarchica dalla Russia.

Non era scontato. Perché le Chiese ortodosse ucraine, da quando una parte degli ortodossi di Kiev ha deciso, nel 2018, di divenire “autocefala” – come si dice in gergo tecnico-religioso – , e cioè indipendente, erano due. Kirill non ha voluto riconoscere l’autocefalia degli ortodossi ucraini, che si sono radunati attorno al metropolita Epifanio, e coloro che hanno invece deciso di continuare a riferirsi a Mosca sono entrati a far parte di quella che viene chiamata Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca. Quella che oggi sembra sgretolarsi.

Il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, invece, non solo ha dato parere positivo all’indipendenza degli ortodossi di Kiev che hanno voluto abbandonare Mosca nel 2018 ma si è anche recato di recente, in piena guerra, in Polonia. Il che non può che rappresentare un segno di vicinanza anche all’Ucraina invasa dallo “Zar”. Vladimir Putin, con ogni probabilità, potrebbe aver pensato, mentre rifletteva sul conflitto, di poter contare su alcuni “gangli” all’interno della nazione presieduta da Volodymyr Zelensky. Tra quelli, è possibile che lo “Zar” abbia ragionato sui moltissimii luoghi di culto, tra monasteri e non, che afferiscono, o meglio avrebbero dovuto afferire, al Patriarcato di Mosca.

Le cronache di guerra, tuttavia, riportano un altro andazzo. Repubblica, ad esempio racconta di come l’arcivescovo di Chernihiv e Nizhyn abbia bollato come “non cristiani” i “valori” del patriarcato moscovita. Il clima non è mai stato così teso. Kirill, dal canto suo, sta sostenendo in lungo ed in largo la narrativa di Vladimir Putin su quella che i russi chiamano “operazione speciale” in Ucraina.

Per mezzo di un sermone che rischia di rimanere iconico rispetto al conflitto voluto dalla Russia, il patriarca di Mosca ha parlato di un “test” di fedeltà che avrebbe a che fare con l’identità tradizionale del Donbass e con quello che l’Occidente vorrebbe culturalmente importare da quelle parti di mondo, comprese le “parate gay”. Gli ortodossi ucraini, dal canto loro, misurano le considerazioni dei moscoviti sulla base di un’invasione che, al netto delle prossimità religiose, non ha alcuna spiegazione. E la frattura aumenta.

In tutto questo, c’è anche la Chiesa greco-cattolica, che è quella che continua naturalmente ad avere il Vaticano come interlocutore verticistico. Quella con cui la Santa Sede non può che parlare con maggiore frequenza, per quanto il Papa stia cercando di tenere aperte più linee comunicative al fine di provare a raggiungere la pacificazione nel minor tempo possibile. Quando ci si riferisce alla “complessità” del lavoro diplomatico del pontefice argentino e della “diplomazia vaticana”, bisogna riferirsi a questo quadro così ingarbugliato.

Jorge Mario Bergoglio ha sempre fatto dell’unità dei cristiani un obiettivo, per quanto utopistico. E l’effetto indiretto comportato dalla guerra di Putin, cioè un’ulteriore scomposizione, non fa che allontanare il processo di dialogo con gli ortodossi che il Vaticano ha sostenuto in modo proattivo in questi nove anni di pontificato e non solo.

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