La Barca di Pietro e il suo nocchiere, papa Francesco, sono nella tempesta. La morte di Benedetto XVI ha, in pochissimi giorni, sdoganato quelle tensioni che le componenti tradizionaliste della Chiesa cattolica mai avrebbero potuto mettere in campo con il Papa emerito in vita. E tra i motivi per cui Jorge Mario Bergoglio è sotto assedio, c’è anche la visione di politica estera.

La visione para-evangelica, occidentalista e identitaria della Chiesa che hanno i tradizionalisti, dal cardinale americano Raymond Burke all’ex segretario di Ratzinger Georg Ganswein, sottende un ruolo di politica estera della Santa Sede allineato ai più stretti desiderata occidentali. Fumo negli occhi, per loro, la teologia “politica” di Francesco che, nomen omen, ha guardato al dialogo ecumenico come strumento di costruzione di un campo a più voci in campo internazionale.

Benedetto XVI in quest’ottica è più strumentalizzato che veramente preso a esempio: il defunto Papa emerito, campione dell’apertura del Vaticano alla Russia, interprete dello spirito di Assisi per la pace e il confronto inter-religioso e attento alle dinamiche profonde della società globale, è presentato come la versione in paliotto di un qualsiasi predicatore evangelico americano. E contrapposto, in quanto europeo e occidentale, a Bergoglio anche per sabotarne l’ambiziosa agenda di politica estera. Calcolo spregiudicato con Ratzinger vivo, che non ha mai dato appigli per contrapporsi al suo successore. Mossa spericolata in campo politico ora che Benedetto XVI è venuto a mancare.

I tradizionalisti andrebbero, in quest’ottica, chiamati anche “occidentalisti”. Vogliono la ripresa delle prese di posizioni nette dell’era della Guerra Fredda, convinti che la Chiesa Cattolica debba prendere posizione in difesa dei valori occidentali come se fossimo in un perenne mondo pre-1989. Ieri l’avversario era l’Unione sovietica, oggi si chiama Cina, con Russia e Iran a ruota. Il modello è il dialogo sistemico venutosi a creare tra Vaticano e Stati Uniti all’epoca di Giovanni Paolo II e Ronald Reagan con il fine di demolire il comunismo. Atto in cui la Santa Sede operò sia con la forza morale dell’istituzione religiosa sia con i sotterfugi della rodata organizzazione politica. Ma che rappresentò una stagione di marcia comune, non la strutturazione di un’alleanza.

Le divergenze tra Vaticano e Stati Uniti, alimentatesi a partire dagli Anni Novanta, spiegano in quest’ottica molto della frattura consumatasi in Oltretevere. “La critica di fondo che viene mossa al pontificato argentino e alla Segreteria di Stato” di Pietro Parolin, secondo quanto scritto da Massimo Franco sul Corriere della Sera, “è di avere privilegiato in questo decennio i rapporti con regimi autocratici. Con la Cina, nella speranza di lungo periodo di convertire almeno una parte di quel Paese immenso”, sfruttando il grimaldello degli accordi sulla nomina dei vescovi, e “con la Russia, per favorire il dialogo tra cattolici e ortodossi”. Francesco non pensa con i tempi brevi della diplomazia occidentale, come del resto non lo fa la Chiesa: l’istituzione “ospedale da campo” è in quest’ottica stretta tra le pressioni del clero progressista, fermo nel suo attivismo della società civile, e l’assedio dei tradizionalisti che si sostanzia anche nella politica estera.

La realtà dei fatti parla però di un Vaticano che, ammesso l’abbia seguita in precedenza, ha finito con la linea schiettamente occidentalista alla fine degli Anni Ottanta. Già la fine del pontificato di Giovanni Paolo II fu contraddistinto da scontri politici violenti con Washington ai tempi dell’invasione dell’Iraq. E Joseph Ratzinger inaugurò il proprio pontificato attaccando quella “dittatura del relativismo” che era la summa dell’American Way of Life nell’era globalizzata. Francesco, a parte una breve sintonia con Barack Obama sul fronte di Cuba, non ha mai mostrato preferenze particolari per una potenza. Forse ancora più dei suoi predecessori la sua attenzione politica è andata verso il continente meno attenzionato sul fronte teologico, l’Europa, della cui unità come Res Publica Christianorum Francesco ha parlato più volte. Ma in politica estera il Vaticano immerso nella “Guerra Fredda 2.0” non intende essere cappellano dell’Occidente. Senza, però, deviare da una linea che potremmo definire, forzando il concetto, “multipolare”.

Del resto anche molte critiche mosse al Vaticano di Francesco sulla politica estera appaiono strumentali. Sulla Russia Francesco segue le orme di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II nel dialogo ecumenico, come Nico Spuntoni ha ben ricordato nel saggio Vaticano e Russia nell’era Ratzinger; questo non gli ha impedito di costruire sul fronte della mediazione sul conflitto ucraino una linea politica moderata che ha tenuto assieme sia la volontà degli ucraini di difendersi con proporzionalità (come ricordato da Parolin in un’intervista a Limes) sia la necessità di una pace giusta che sani anche le ingiustizie del passato.

Sulla Cina, invece, nessuno strappo: l’accordo sui vescovi e la forzatura su Hong Kong, sparita dai radar pontifici, non ha prodotto un appiattimento dell’Oltretevere su Pechino. Formalmente, il Vaticano continua a riconoscere Taiwan come Stato sovrano e quello tra Papa Francesco e Xi Jinping è un avvicinamento graduale, forse inesorabile ma a cui la Chiesa Cattolica non è disposta a arrivare a qualunque costo.

Il tema centrale è quello degli “Imperi paralleli di cui Massimo Franco parla nell’omonimo saggio, riferibile in primo luogo al rapporto Vaticano-Usa ma, ora, anche a quello con la Cina e la Russia. Nella concezione di Franco la Santa Sede e Washington sono, a loro modo, istituzioni imperiali che ragionano in termini di storia profonda e sanno plasmare il contingente agli obiettivi strategici di lungo termine. Necessità ancora più forte per il Vaticano, che non dispone di strumenti di hard power ma solo di un capitale morale, diplomatico e, non sottovalutabile, di informazioni per condizionare la traiettoria delle potenze nella direzione auspicata da ogni pontefice e esplicitata da Francesco: la sopravvivenza della Chiesa, la libertà di culto, il perseguimento della pace. Lo stesso discorso si applica a Mosca e Pechino, con un corollario diretto proveniente dalle scienze strategiche: gli imperi non possono mai essere strutturalmente alleati tra di loro. Con buona pace delle speranze più forti e dei timori più reconditi dei tradizionalisti che oggi assediano Bergoglio.

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