«Noi Cristiani di Aleppo e di Siria viviamo peggio di quando cadevano le bombe. Ci aspetta un Natale freddo, buio e silenzioso. Non è un modo dire. Qui non abbiamo né il gasolio per scaldarci, né l’elettricità per illuminare le case, né tantomeno la voglia di parlare e di scambiarci gli auguri. E, come se non bastassero queste disgrazie, quest’anno è arrivato anche il Covid». Al telefono la voce di Monsignor George Abu Khazen, vescovo latino di Aleppo, suona stanca, provata, disillusa. Una voce diversa da quella ascoltata nei giorni più bui quando, al suo fianco, attraversavamo le vie di una Aleppo bersagliata dalle bombe e assediata dalle bande islamiste. In quei giorni difficili monsignor Abu Khazen trovava comunque la forza di scherzare, aggrapparsi alla speranza, condividerla con i suoi fedeli. Oggi ci riesce a fatica. «Lottare contro la miseria – spiega – è più difficile che sopravvivere alle bombe. Quelle possono anche non colpirti, la miseria invece non ti lascia mai. Qui, ogni giorno, i cristiani fanno i conti con fame e privazioni. Hanno ridotto il razionamento del gasolio da 200 a 100 litri e la benzina a soli 30 litri la settimana. L’elettricità, invece, arriva per un’ora e mezzo e manca per le nove successive. Come si può vivere così?».

La stessa domanda te la fa monsignor Josepj Tobji, vescovo maronita di Aleppo. Ha appena finito di ricostruire la sua chiesa, la cattedrale di Sant’Elena trasformata in una gruviera dalle bombe ribelli che, dal 2011 al 2016, non hanno mai smesso di colpirla. Ma quella cattedrale fresca di stucchi e vernici da sola non basta. «Il Natale un po’ di felicità la regalerà, ma poi bisognerà tornare alla realtà. E la realtà è che qui la guerra non è mai veramente finita. La pace è solo apparente. Il Caesar Act, le nuove sanzioni imposte lo scorso giugno dagli americani sono proprio questo, una guerra subdola studiata per farti morire di fame anziché sotto le bombe. I numeri parlano chiaro. Un impiegato piglia 50mila lire al mese, ma con l’inflazione un chilo di carne costa ormai 20mila lire, un chilo di formaggio 10mila. Le nostre famiglie non riescono più a sopravvivere. Per riuscire a mettere nel serbatoio i trenta litri di benzina alla settimana concessi dal razionamento bisogna fare una fila di tre o quattro ore. Due mesi fa ci volevano quasi tre giorni, la gente dormiva in auto davanti alle pompe. Tutto questo mentre nell’est del paese gli americani rubano il nostro petrolio e lo mandano in Iraq mentre a noi impediscono d’importarlo. Per questo i Cristiani invece di far ritorno alle loro città e alla loro nazione sognano di abbandonarle. Appena finiti i combattimenti sono rientrati quelli che si erano spostati a Damasco e in altre zone del paese, ma chi è riuscito ad andare all’estero si è ben guardato dal tornare. Il sogno di tutti è prendere un visto e scappare. Ormai qualsiasi posto è meglio di quest’inferno».

Ma c’è sempre qualcuno che sta peggio. Monsignor Abu Khazen è il primo a ricordarlo. «I nostri fratelli delle due parrocchie di Kneie, sul fiume Oronte, passeranno sicuramente un Natale peggiore del nostro. Lì ci sono ancora i ribelli alqaedisti, quelli di Jabat Al Nusra. Adesso hanno cambiato nome, si fanno chiamare Hay’at Tahrir al-Sham, ma sono sempre loro. E per i nostri fratelli la situazione non cambia. Vivono prigionieri nelle loro case, non possono neppure esibire le croci. Hanno dovuto toglierle dalla facciata della chiesa e smettere di suonare le campane. Devono recitare la messa a porte chiuse facendo attenzione che non un canto, non una preghiera si sentano al di fuori dalla chiesa. Dall’estate del 2011 quando i ribelli si sono impadroniti della zona, i cristiani dell’Oronte vivono come dei galeotti. Solo ultimamente hanno riavuto il permesso di uscire per andare a coltivare i loro campi. Un tempo erano qualche migliaio, ma in nove anni molti sono riusciti ad andarsene o a scappare. Ormai ne sono rimasti soltanto 260. Quando in Europa vi scambierete i regali pensate a loro e capirete cosa sia veramente la tristezza».

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Ma anche ad Aleppo di tristezza ce n’è da vendere. «Il Covid è arrivato anche da noi, ma non abbiamo difese. Chi finisce all’ospedale non ritorna più perché non ci sono respiratori e la rianimazione ha venti posti in tutto. Chi, invece, non ha il Covid è condannato a prenderselo perché per fare la fila per il pane e per gli altri generi di prima necessita è costretto a starsene ammassato per ore davanti a forni e negozi. Ovviamente sempre senza mascherine e senza protezioni perché non ce ne sono per tutti. E non essendoci tamponi nessuno sa neppure chi sia malato e chi no. Per questo voglio dire una cosa ai vostri governi e a tutti quelli che difendono le sanzioni. Se veramente volete fare un po’ meno male non solo a noi Cristiani ma a tutti i siriani, vi prego smettetela di ripetere la bugia secondo cui sanzioni servono a difendere il nostro popolo. Smettete di ucciderci in silenzio. Ricominciate a trattarci da esseri umani». E lo stesso augurio arriva per bocca di Monsignor Abu Khazen. «Vi prego smettetela di dar retta agli americani e aiutate i Cristiani a tornar in Siria. Questo è un paese ricco, il grano e petrolio non mancano, ma voi ci impedite di utilizzarli. Le sanzioni sono un crimine e vanno tolte perché fanno soffrire la gente comune. E i più poveri sono quelli che soffrono di più».