La chiamata di Papa Francesco al presidente ucraino Volodymir Zelensky ha segnato un’accelerazione nella partecipazione del Vaticano alla partita di mediazione diplomatica nella guerra tra Kiev e la Russia. In un gioco delle parti con il Segretario di Stato Pietro Parolin Bergoglio ha mostrato che il Vaticano è pronto a prendere in considerazione sia la comprensione della difesa armata ucraina (Parolin dixit) sia l’indicazione del dialogo come unica via realista per l’uscita dal conflitto. Come sottolineato chiaramente da Bergoglio con la telefonata al leader di Kiev e con la sua condanna della corsa al riarmo in atto in Europa.

Il Vaticano si muove politicamente dopo che anche nel campo della diplomazia religiosa il sentiero si è ristretto. La guerra civile tra le capitali dell’ortodossia, Mosca e Kiev, è un conflitto fondamentale anche sul fronte della fede Anba Raphael, Vescovo copto ortodosso del centro del Cairo, ha dichiarato allo scoppio della guerra che “l’unico a godere è il diavolo, che già danza sulle teste dei cadaveri, e gioca con il dolore delle vedove, degli orfani e delle madri in lutto” e Gianni Valente, attento studioso delle dinamiche della religione cristiana, ha sottolineato che i discorsi di guerra di Kiril, patriarca di Moscaha seppellito ogni via ecumencia portando la Chiesa ortodossa russa in guerra contro il popolo fratello d’Ucraina. “La speranza di riconciliarsi col semplice confessare insieme la comune fede degli apostoli sembra essere evaporata”, ha scritto Valente sul suo blog. Prima ancora delle bombe in Ucraina, “l’avevano già sabotata gli scismi esplosi negli ultimi anni tra il Patriarcato di Mosca e il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, in seno all’Ortodossia”. Papa Francesco e Parolin ne sono consci, ma non demordono.

Al Vaticano resta la grande forza diplomatica e la dichiarata professione a favore di un sistema multipolare equilibrato. Resta la capacità di “fare intelligence” e ottenere informazioni privilegiate e di prima mano. E la credibilità di Papa Francesco sia agli occhi di Zelensky che a quelli di Vladimir Putin è notevole. Tra Bergoglio e lo Zar del Cremlino c’è un rapporto franco e sincero. Francesco da tempo sogna un viaggio in Russia e l’occasione potrebbe essere quella della diplomazia da pontiere del Vaticano.

La Santa Sede, quando si muove, dietro di sè mobilita la forza della storia, della tradizione, di una civiltà dialogante. E nella guerra tra Russia e Ucraina questo è un dato fondamentale. “Ognuno o è un tuo fratello nella religione o lo è nella creazione”: la frase che accolse Francesco in Iraq un anno fa appare il motto religioso con cui declinare la geopolitica vaticana degli ultimi pontificati, da Giovanni Paolo II in avanti. Pontificati vissuti con modalità differenti ma accomunati dall’ottica di costruire un sentiero condiviso con le altre grandi fedi, culture e civiltà per non consegnare il mondo all’unipolarismo e al pensiero unico neoliberista. Un pensiero che può aver avuto al centro l’Europa dall’Atlantico agli Urali (Giovanni Paolo II), l’Europa come comunità ideale della Res Publica Christianorum (Benedetto XVI) o l’Europa come antitesi al resto del mondo ritenuto più vivace (Francesco) ma che dal Vecchio Continente non ha potuto mai prescindere. Mosca e Kiev, capitali europee, sono la meta della diplomazia di Francesco.

E non è un caso che i pontieri siano attori come Vaticano, Israele e Turchia. Entità politiche e trascendenti al tempo stesso. Stati sovrani e custodi di culture secolari che hanno colto la portata storica di questo conflitto. Naftali Bennet, Recep Tayyip Erdogan e Papa Francesco non potrebbero essere più diversi. Ma tutti hanno colto che in questa fase l’unico katehon possibile verso lo sdoganamento del caos possono essere Stati radicati in una prospettiva storica di lungo periodo. Israele con il legame atavico tra gli ebrei e l’area geopolitica storicamente sotto il dominio russo; la Turchia in quanto rivale storica di Mosca e Paese in ambigua relazione con l’Occidente sa che la chiave per la sopravvivenza sta, ora come ora, nella difesa dal caos del quadrante geopolitico di riferimento tra Europa, Asia e Nato. Lo Stato degli Ebrei, la potenza di riferimento dell’Islam sunnita e lo Stato governato dalla Santa Sede capiscono che questo è scontro di civiltà, di assoluti irriducibili. Guerra di religione proclamata in nome della Santa Russia da Putin, guerra santa contro l’aggressore, Male senza nome, per Zelensky. Alle spalle si staglia l’incubo del conflitto generalizzato che per il Washington Post “provocherebbe una crisi esistenziale alla quale un ampio segmento del pianeta potrebbe non sopravvivere”.



Giorgio La Pira parlava della minaccia di una guerra tra grandi potenze, con ogni probabilità destinata ad essere di natura atomica come della Frontiera dell’Apocalisse”. Non c’è limite tra polemologia ed escatologia quando si parla della minaccia di un conflitto tra grandi potenze. Governate da leader che hanno sia un forte istinto politico-diplomatico sia una chiara visione valoriale e, cosa più importante, il senso della longe duréé che, ci insegna Fernand Braudel, segna i cicli storici Israele, Turchia e Vaticano hanno messo sino ad oggi in campo i più credibili tentativi di mediazione. Mentre le frange più radicali dell’ortodossia chiamano alle armi in Russia, mentre a Occidente i nuovi crociati, la Polonia e il Regno Unito di Boris Johnson in testa, guidano l’esercito degli anti-russi e mentre l’Occidente si dimostra indeciso e ignavo tra il fare la guerra e il fare la diplomazia, con le uniche deviazioni legate a questioni di business, la mediazione reale sta venendo da Israele, Turchia, Vaticano. In attesa che si muova il gigante cinese, che con la sua capacità d’influenza può essere il vero game-changer e in quanto a senso della storia non è secondo a nessuno di questi tempi, un dato di fatto è chiaro: per la pace servirà tutto il serio impegno dei pontieri dei nostri tempi. Pena il caos a partire dalla guerra senza limiti tra Russia e Ucraina.





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