Questo racconto inizia dalla fine, ossia il 16 ottobre 2016. Quel giorno il pontefice regnante, Francesco I, ha canonizzato uno dei martiri più giovani e coraggiosi che la Chiesa cattolica abbia conosciuto in duemila anni di storia: José Sanchez del Rio.
Messicano, quattordicenne e cattolico osservante, del Rio fu ucciso a Sahuayo, nel Michoacan, da un plotone d’esecuzione il 10 febbraio 1928 per un’accusa apparentemente banale, eppure tanto gravosa da portarlo al patibolo: la sua fede. Ogni iniziativa popolare volta ad ottenere la liberazione del giovane fallì; il governo, infatti, voleva che la sua punizione servisse da esempio per l’intera nazione. Al giovane fu concessa un’unica via di fuga: un atto pubblico di abiura, di rinuncia formale al cattolicesimo, e sarebbe sopravvissuto. Giunti sul luogo della fucilazione, però, del Rio prese la parola per lanciare un grido ben conosciuto ai suoi esecutori, decretando di conseguenza la propria morte: “¡Viva Cristo Rey!“.
La martirizzazione del 14enne avrebbe dovuto spaventare i fedeli cattolici, spronarli ad abbandonare la via delle armi e ad accettare la persecuzione istituzionalizzata dell’allora presidenza Calles, mostrando loro che nessuno – neanche i bambini – sarebbe fuggito al fuoco delle baionette. Accadde il contrario: nel nome di Cristo e di del Rio, consegnato eternamente alla leggenda, la rivolta cattolica avrebbe assunto proporzioni tali da determinare la fine della dittatura atea, segnando per sempre la storia del Messico.
Il contesto storico
La prima rivoluzione di popolo del Novecento non ebbe luogo in Unione sovietica, come si tende a credere erroneamente, ma in Messico. Fu l’esito di una guerra civile durata sette anni, dal 1910 al 1917, provocata dalla volontà di ogni ceto sociale, dai contadini all’alta borghesia, di porre fine al porfiriato, un regime dalle venature dittatoriali legato alla figura di Porfirio Diaz e in piedi dal 1884.
Il fronte rivoluzionario, essendo estremamente eterogeneo, si frammentò quasi naturalmente all’indomani della morte di Diaz, avvenuta nel 1915, iniziando una battaglia fratricida per le redini della nazione. Vinsero i costituzionalisti, l’equivalente messicano dei giacobini, che esclusero i rivoluzionari cattolici dapprima dalla scrittura della nuova costituzione e in seguito dalla formazione del governo.
Il potere politico fu monopolizzato da Alvaro Obregon e Plutarco Calles, i capifila del blocco costituzionalista, che progressivamente implementarono una legislazione fortemente anticlericale con gli obiettivi di secolarizzare coercitivamente la popolazione e di creare una chiesa nazionale, indipendente dal papato e ispirata ai valori massonici dei padri fondatori del nuovo Messico.
Le persecuzioni
I cattolici messicani non avrebbero potuto sapere che l’insediamento alla presidenza di Alvaro Obregon, avvenuto nel 1920, avrebbe dato il via ad una lunga stagione di persecuzioni che, infine, avrebbe condotto ad una nuova guerra civile. L’evento premonitore di quel che avrebbe atteso i cattolici negli anni a seguire accadde il 14 novembre 1921, ad un anno dall’inizio della presidenza Obregon. Quel giorno un attivista filogovernativo, Luciano Perez, introdusse un ordigno nella basilica di Nostra Signora di Guadalupe per distruggere il simbolo del cattolicesimo messicano, il mantello miracoloso della Vergine di Guadalupe. L’attentato fallì clamorosamente – la bomba distrusse l’altare, lasciando intatto il mantello – ma il messaggio raggiunse la Chiesa cattolica. Di lì a poco ebbe inizio una persecuzione morbida basata sulla rimozione dell’insegnamento della religione cattolica dalle scuole pubbliche, sul rimpatrio del clero straniero e sull’imposizione di limitazioni alla presenza del sacro nella vita pubblica.
Sarebbe stato Plutarco Calles, però, il braccio destro di Obregon, ad iniziare ufficialmente la guerra al cattolicesimo. Eletto alla presidenza nel 1924, uno dei suoi primi atti fu la proclamazione della cosiddetta legge Calles (1926), una delle formulazioni più anticlericali mai prodotte in un regime (semi-)democratico, la cui applicazione alla lettera avrebbe gradualmente condotto ad una nuova guerra civile.
La legge Calles fu il fondamento che diede legittimità all’instaurazione di un ordine giuridico tanto anticlericale quanto antireligioso, dietro la scusante della gestione della libertà di culto, dal cui ventre furono partorite una serie di disposizioni molto severe, punibili con ammenda, incarcerazione ed esilio, tra le quali l’obbligo di apostasia per i dipendenti pubblici, l’espropriazione con annessa nazionalizzazione di chiese, conventi e monasteri, e l’accelerazione della campagna di espulsioni dei chierici di nazionalità straniera iniziata da Obregon.
Il nuovo codice legislativo consacrò l’inizio di una persecuzione di stato, legale e istituzionalizzata, la cui intensità, però, non fu uniforme. Gli stati federati, infatti, in quanto liberi di applicare la legge Calles a propria discrezione e interpretazione, si adattarono alla nuova realtà in maniera differente. Nel Chiapas, ad esempio, il governatore Tomás Garrido Canabal, ordinò “l’assassinio di numerosi sacerdoti e la chiusura delle chiese del Tabasco, vietò l’abito talare, i libri che menzionavano Dio e l’uso di croci sopra le tombe; sostituì le feste religiose con celebrazioni regionali e cambiò le denominazioni di città e villaggi che contenevano nomi di santi; obbligò, infine, i sacerdoti a sposarsi”.
In altri stati federati, invece, oltre all’adozione del divieto dell’abito talare e dell’obbligo di matrimonio, furono introdotte norme intrinsecamente liberticide, de facto trasformanti i sacerdoti in cittadini di serie C, come la privazione del diritto di voto e la proibizione di organizzare e/o partecipare a manifestazioni politiche.
La creazione di gruppi paramilitari da parte della presidenza e dei governanti federati aventi l’obiettivo di terrorizzare – e uccidere – i dissidenti, sia preti che fedeli, fece da cornice alla persecuzione legale e istituzionalizzata. Espulsioni e omicidi condussero gradualmente il clero messicano sull’orlo dell’estinzione: dei circa 4.500 sacerdoti operanti nel 1926, nove anni dopo ne sarebbero stati censiti 308 e celebrare messa sarebbe stato impossibile in diciassette stati federati a causa dell’assenza di personale.
Dopo due anni di dialogo infruttuoso tra Chiesa cattolica e presidenza – cadde nel vuoto una petizione firmata da oltre due milioni di persone e non produssero alcun effetto le marce di protesta e i boicottaggi popolari dei prodotti fabbricati da compagnie statali – il primo agosto del 1926 le campane delle chiese messicane suonarono per l’ultima volta su ordine dell’allora pontefice Pio XI. Fu l’inizio della clandestinità e l’avvio della cosiddetta cristiada o guerra cristera.
La guerra cristera
Non è possibile realizzare una stima realistica dei cristeros, coloro che al grido “¡Viva Cristo Rey!” dichiararono guerra al presidente Calles e alle sue milizie, anche se gli storici credono che possano essere stati circa 80mila all’apice della cristiada. Questo esercito godette del supporto di ampi strati della popolazione, come dimostrato dalla sua composizione estremamente variegata: gente di ogni età, da bambini ad anziani, sesso ed estrazione sociale.
La mente che rese possibile la trasformazione della cristiada da una ribellione a bassa intensità ad una guerra asimmetrica su larga scala fu Enrique Gorostieta Velarde, un imprenditore e reduce della rivoluzione. Gorostieta fu colui che professionalizzò i cristeros, creando delle divisioni, istruendoli all’utilizzo delle armi e introducendoli all’arte della guerra regolare ed irregolare, riuscendo a portare il conflitto dalle campagne alle città e, soprattutto, a mettere in pericolo la stabilità del governo grazie ad una scia di vittorie sul campo contro le forze armate, tra le quali la celebre battaglia di Tepatitlan.
Calles, incurante delle crescenti pressioni diplomatiche provenienti da Stati Uniti e Vaticano, tentò di colpire il morale dei guerriglieri ricorrendo alla carta della brutalità: alle forze armate, regolari e irregolari, fu data carta bianca in termini di saccheggi e uccisioni sommarie e, inoltre, fu abbassata la soglia d’età dei condannati a morte. Fu in questo contesto di escalazione del conflitto che avvennero le impiccagioni di José María Robles Hurtado e Cristóbal Magallanes Jara, due presbiteri carismatici e conosciuti a livello nazionale, e le brutali esecuzioni don Sabás Reyes Salazar e del giovane José Sanchez del Rio.
La morte di del Rio, lungi dal demoralizzare i cristeros e spronarli ad abbandonare definitivamente la via delle armi, fu seguita da un’ondata travolgente ed irrefrenabile di violenza e da una generalizzazione del malcontento popolare. Fu in questo clima di sgomento, esasperazione e crescente anarchia che, a pochi mesi di distanza dall’eternizzazione del Rio, il 17 luglio, un cristero di nome José de Leòn Toral riuscì nell’impossibile e nell’impensabile: assassinare Obregon, rieletto alla presidenza sei giorni prima.
La scomparsa prematura e violenta di Obregon, l’eminenza grigia dell’agenda anticattolica, convinse il presidente ad interim, Emilio Portes Gil, ad avviare un tavolo negoziale con Dwight Whitney Morrow, ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, e padre John Burke, presbitero americano agente su delega vaticana. Le trattative condussero alla firma degli accordi (Ios arreglos), un piano di pace basato su diversi punti, tra i quali l’entrata in inattività permanente della legge Calles e la concessione della grazia ai combattenti.
Il 27 giugno 1929, dopo quasi due anni di silenzio, le campane delle chiese messicane tornarono a suonare, sancendo l’inizio di un lungo ritorno alla normalità, costellato dalla continuazione di scontri intermittenti e a bassa intensità, che sarebbe terminato soltanto nel 1934. Quell’anno si insediò alla presidenza Lazaro Cardenas, il “papà dei messicani”, colui che riabilitò ufficialmente il cattolicesimo e che, inoltre, condannò Calles all’esilio perpetuo negli Stati Uniti con le accuse di aver mosso una guerra ai suoi concittadini e di aver creato uno stato nello stato, il cosiddetto maximato.
L’attualità della guerra cristera
La cristiada è uno di quegli eventi del passato dall’attualità imperitura e la cui conoscenza può rivelarsi una fonte sempreverde e inalterabile di spunti e riflessioni, al di là del tempo trascorso. Le persecuzioni di Obregon e Calles provocarono fra i 100mila e i 300mila morti, causando la quasi-estinzione del clero, rendendo impossibile l’esecuzione della messa in diciassette stati per assenza di sacerdoti e alimentando una piccola ondata di emigrazione verso la California.
L’attualità perenne di questa guerra di religione volutamente relegata all’irrilevanza, sulla quale pesa una condanna velata alla damnatio memoriae da parte della storiografia, è data dal fatto che le cristiade non sono mai finite: avvengono ovunque, quotidianamente, nel silenzio e nell’indifferenza di politica, opinione pubblica e grande stampa.
Il cristianesimo, infatti, è la prima religione al mondo per numero di fedeli e, anche e purtroppo, per numero di perseguitati. Il livello delle violenze anticristiane è tale che, secondo un rapporto del 2019 commissionato dal parlamentare britannico Jeremy Hunt, si starebbe progressivamente giungendo ad una situazione genodiciale: infatti, ogni dieci persone perseguitate nel pianeta a causa della fede professata, otto appartengono ad una confessione cristiana.
Secondo l’ultima relazione dell’agenzia missionaria Porte Aperte (Open Doors), fra il 2019 e il 2020 è aumentato del 9% il numero dei cristiani perseguitati nel mondo, salito a quota 250 milioni, e in alcuni paesi la violenza è tale che l’emigrazione in massa è l’unica via di salvezza: in Iraq, ad esempio, la popolazione cristiana si è ridotta dell’87% nell’era dello Stato Islamico.
Fare una stima di coloro che ogni anno vengono uccisi in odium fidei non è semplice: alcuni centri studi fanno rientrare nell’elenco dei “martirizzati” anche le vittime delle guerre civili, fratricide e tra clan che insanguinano l’Africa, dalla Nigeria al Congo, ed altri impiegano dei criteri di calcolo più rigidi. A seconda del metodo utilizzato, comunque, i numeri dipingono una realtà che ricorda le persecuzioni del cristianesimo delle origini: si passa dalla media di 100mila morti l’anno del Centro per lo Studio della Cristianità Globale alla stima, sempre annuale, di 10mila morti della Società Internazionale per i Diritti Umani; Porte Aperte, invece, offre delle cifre meno pessimistiche, ma comunque elevatissime, 4.305 assassinati in odium fidei nel 2019, ossia una mattanza che avviene al ritmo di undici omicidi al giorno.
Le persecuzioni avvengono anche in Occidente
L’associazione persecuzioni anticristiane e Sud globale è fondamentalmente erronea e frutto di una visione stereotipizzata del mondo. I fedeli cristiani subiscono delle persecuzioni morbide e velate anche nelle cosiddette società avanzate dell’Occidente, ormai ampiamente secolarizzate e, quindi, post-cristiane. La Francia, dove vige la legge sulla separazione tra stato e chiesa più rigida d’Europa, è il caso più emblematico: fra il 2008 e il 2019 gli attacchi anti-cristiani sono quadruplicati ed ogni anno viene stabilito un nuovo record. Ad esempio, fra il 2018 e il 2019 il numero delle azioni anti-cristiane è cresciuto da 877 a 1.052. Queste azioni, lungi dall’essere circoscritte al fenomeno delle profanazioni di cimiteri e ai furti di ostie, includono roghi di chiese, aggressioni ai sacerdoti e vandalismo contro croci e statue cristiane in luoghi pubblici.
La portata del fenomeno, che è già di per sé esteso e preoccupante, assume una rilevanza ancora maggiore quando si procede ad una comparazione con il resto dell’Europa. È in Francia, infatti, che avviene il maggior numero degli attacchi anti-cristiani che hanno annualmente luogo nel Vecchio Continente. L’anno scorso, in tutta Europa sono stati commessi circa 3mila attacchi anticristiani, dei quali, come già scritto, 1.052 sono avvenuti nella sola Francia. Questo significa che, numeri alla mano, nel paese si consuma un terzo di tutti gli attacchi anticristiani del continente.
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I cristiani, in breve, sono perseguitati ovunque in ragione del loro credo, sia nella turbolenta e conflittuale realtà del Sud globale che nel quieto mondo sviluppato, e la loro condizione peggiora su base annua. Abituarsi a vivere in uno stato di persecuzione onnipresente e globale può suonare terrificante, ma questo è il futuro che attende la cristianità – e i numeri lo confermano – ed è il motivo per cui gli ultimi pontefici, incluso Francesco I, hanno invitato i fedeli a scoprire, o riscoprire, un libro del 1907 di Robert Hugh Benson: Il padrone del mondo (Lord of the World).
Benson, in quelle pagine, aveva immaginato un futuro cupo, dominato dall’irreligiosità e dalla riduzione dei cristiani ad una minoranza esigua e perseguitata, prossima all’estinzione. Pura distopia, frutto dell’immaginazione fervida di uno scrittore, che, però, dieci anni più tardi si sarebbe materializzata in Russia, dove i bolscevichi trasformarono la Terza Roma nella prima dittatura atea del pianeta, venti anni dopo si sarebbe ripresentata in Messico, teatro della guerra cristera, e, infine, ad un secolo di distanza, avrebbe riguardato l’intero cristianesimo, divenuto la religione più perseguitata del mondo.