È sera e nonostante la luce del sole stia calando, nella fabbrica di mattoni di Manaawalla, ancora, incessantemente, decine di uomini, donne e bambini, con la schiena piegata, i volti macchiati dalla terra e dallo sforzo e le mani consumate dal peso dei parallelepipedi, continuano a lavorare. È solo una delle numerose fornaci dove vengono prodotti i laterizi, nella campagna pachistana di Lahore, ma è un posto eloquente per comprendere il dramma della discriminazione dei cristiani, nel Pakistan odierno.«Oggi in Pakistan assistiamo alla persecuzione dei cristiani che viene compiuta da parte di gruppi estremisti islamici che colpiscono indiscriminatamente tutta la popolazione: sia cattolica sia musulmana. Ma vediamo anche il problema della discriminazione che obbliga le minoranze religiose a dover svolgere i lavori più umili e a vivere in uno stato di subordinazione nella società». È con queste parole che Joseph Coutts, l’arcivescovo di Karachi, pochi giorni prima di partire per il Punjab, all’interno della sua diocesi, ci aveva spiegato la realtà nella quale sono costretti a vivere i suoi fedeli. Poi, l’arrivo nella campagna di Lahore ed ecco che le parole dell’arcivescovo divengono tangibili e il dramma dello sfruttamento dei lavoratori cattolici appare in tutta la sua tragicità. Una ciminiera, immersa nel verde dei campi, indica l’ingresso nell’azienda di mattoni. Una deviazione a destra dalla strada che conduce sino in India, una via sterrata e subito si intravvedono le case dei lavoratori. Oltre 50 famiglie cristiane vivono nello stabilimento. Da subito, come ci si addentra, si scorgono in ogni dove degli operai al lavoro. Alcune bambine con ritmo ipnotico continuano a girare i mattoni per impedire che si deformino, donne e uomini anziani preparano file infinite di laterizi che devono essere cotti. Ragazzi più giovani caricano e scaricano i camion e altri, invece, con dei calzari di legno ai piedi e il volto nascosto da sciarpe per proteggersi dal calore, continuano a estrarre e inserire blocchi di argilla all’interno del forno, sommersi sempre da nugoli di fuliggine fra temperature infernali.«Qua, i dipendenti vengono pagati a cottimo: 890 rupie (9 euro circa ndr) ogni mille mattoni che producono, lavorano dalle 10 alle 12 ore al giorno, a volte anche di più, ma alla fine hanno un salario, hanno di che vivere e se non ci fossimo noi, non avrebbero alternative e possibilità. È faticoso, certo, ma loro sono felici perché comunque hanno un lavoro». A parlare è uno dei titolari della fabbrica Iqbal Bashir, musulmano, che cammina all’interno della sua industria controllando l’operato dei suoi dipendenti. Le parole del padrone contrastano però con i volti e i pensieri dei lavoratori. Un bambino, che trasporta un sacco colmo di terra, mostra la medaglietta col volto di Gesù, un altro uomo si ferma e con una teatralità drammatica saluta e poi recita un segno della croce. Simbologie di una fede discriminata dallo Stato ma divenuta il solo appiglio di sopravvivenza per i lavoratori cristiani.«Io ho fatto questa vita da quando sono nata, non conosco altro e questo devo fare per sopravvivere». Con queste parole Nargas Munawar, di 35 anni e madre di un figlio di 7, dipinge la sua situazione e poi prosegue: «Io non ho alternative, quello che spero è che mio figlio un domani non sia costretto a fare la mia stessa fine. Prego Dio perché gli riservi un destino diverso». Sono oltre 6mila le fabbriche di mattoni in Pakistan e, stando a quanto dichiarato dal Punjab’s Labour Department, sono oltre 24mila i bambini che vi lavorano. Il fatto che parte della manodopera sia cristiana è dovuto allo stato di discriminazione in cui vive la minoranza religiosa che in molti casi, per sopravvivere, è costretta a svolgere i lavori più umili. E uno dei motivi, per cui i fedeli non islamici vivono in uno stato di subordinazione, è la legge sulla blasfemia. Una legge arbitraria che dal 1986 punisce chi nomina Maometto e il Corano e che pende come una spada di Damocle sulla popolazione non musulmana del Paese. Inoltre, la pena prevista per chi viene accusato di aver infangato il nome del Profeta, o il Libro sacro, è la sentenza capitale. Il caso più noto di chi è stato vittima di questa legge, è quello di Asia Bibi: donna cristiana che un gruppo di contadine ha accusato di aver offeso Maometto e che da 7 anni è detenuta in carcere in attesa dell’esecuzione.Ma il radicalismo islamico in Pakistan non riguarda soltanto la discriminazione e la legge sulla blasfemia perché, nel Paese nato nel 1947 dalla separazione dall’India, si registra una presenza sempre più consistente di frange dell’estremismo islamico che hanno dichiarato guerra agli infedeli. Il fanatismo religioso armato si è sviluppato in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan e dopo l’11 settembre c’è stata una recrudescenza nelle azioni. Personaggi in prima fila nella difesa delle minoranze religiose e impegnati nella lotta al terrorismo, come Benazir Bhutto e Shabhaz Bhatti, sono stati assassinati, e dal 2001 al 2014 il Pakistan è stato il terzo Paese al mondo più colpito da azioni terroristiche con oltre 18mila vittime. L’ultima strage si è verificata la domenica di Pasqua del 27 marzo 2016 nel parco Gulshan e Iqbal Park di Lahore dove un kamikaze imbottito di tritolo si è fatto esplodere in mezzo alle famiglie con l’obiettivo di uccidere il maggior numero possibile di cristiani. Il bilancio finale è stato di 60 morti e 350 feriti. Sonia Assif, seduta nella sala della sua piccola abitazione, nella periferia del capoluogo della regione del Punjab, racconta le ore terribili vissute durante l’attentato di Pasqua. Un’immagine di Cristo e una della Madonna sono appese su una parete della stanza e lei tiene in braccio la piccola figlia Sheeza e il figlio Sylvestre che ha 5 anni. «Mi ricordo un boato enorme e poi un lampo. E la gente che correva in ogni dove. Era sera e quando c’è stata l’esplosione – spiega la donna – è scoppiato l’inferno. C’erano tantissime famiglie e subito tutti hanno iniziato a correre. Mi ricordo il sangue, i corpi dilaniati e io ero disperata perché non trovavo i più i miei figli». La donna comincia a piangere, non trattiene la commozione pensando a quelle ore. I figli li avrebbe riabbracciati più tardi ma tutti e due i bambini erano feriti. Sheeza, la più piccola, di appena un anno, ha perso l’udito a causa dell’esplosione, Sylvestre, invece, è stato ferito agli organi genitali e oggi rimane granitico come un uomo, nonostante l’età, le operazioni chirurgiche a cui è stato sottoposto e il futuro di dolore che gli si prospetta.Ma c’è anche chi in quell’attentato un figlio l’ha perso per sempre. Come James e Asia Paul, genitori di Noman Paul, di 19 anni, che si era recato al parco per trascorrere una domenica di festa con gli amici. I genitori continuano a sfogliare l’album di famiglia e ricercare nelle foto un sorriso di un figlio che l’odio del terrorista gli ha portato via. Poi, il padre, James racconta: «Lui era un figlio modello che voleva vivere in pace e quella domenica voleva ridere e scherzare con i suoi amici. La notte è venuta la polizia a dirci che lui era morto, non volevamo crederci, ma era così. Ora la mia casa, la mia vita, tutto è vuoto, c’è un vuoto incolmabile ovunque». E poi aggiunge: «Io non odio l’islam perché la fede islamica non c’entra nulla con il terrorismo, e anche molti musulmani erano al parco e sono morti e sono vittime quanto noi di questo odio. Io condanno il terrorismo. È lui il male, è lui la causa della morte di mio figlio. Noi, cristiani e musulmani insieme dobbiamo combatterlo per evitare che altre madri piangano i propri figli».
Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove?
Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare?
Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.