Stati Uniti, la loro identità è intrinsecabilmente legata al cristianesimo. La loro storia inizia con l’arrivo a Plymouth di un gruppo di puritani inglesi alla ricerca di una nuova Gerusalemme al di fuori dell’Europa. Dio è nei loro tribunali, nelle loro monete ed è il loro motto – In God We Trust.
Dio, inteso come il Dio abramitico, negli Stati Uniti è una presenza fissa anche al momento dell’insediamento del capo di stato, giacché i presidenti giurano sulla Bibbia dai tempi di George Washington. Una tradizione, più che legata al padre della nazione, dovuta ad un fatto accaduto quel giorno di aprile del 1789: Washington, a giuramento finito, si accorse di aver la mano su Genesi 49,1-27 – la benedizione di Giacobbe. Un segno. Un destino. O meglio: un manifesto destino.
Non si può scrivere di Stati Uniti prescindendo da una spiegazione della loro connaturata cristianità. Perché la suddetta, oltre a permeare la quotidianità dell’americano comune, ieri ha plasmato la visione del mondo dei Padri fondatori e oggi plasma quella dei loro nipoti. Calvinisticamente predestinati a essere Città sulla collina e Impero della libertà. Inevitabilmente costretti a utilizzare la violenza per liberare il mondo dal male – violenza redentrice.
Stati Uniti, se è vero che la cristianità è connaturata in loro, lo è altrettanto che il senso religioso delle masse sta rapidamente scemando dinanzi all’avanzata inesorabile, e apparentemente inarrestabile, della secolarizzazione. Ed è lecito chiedersi che cosa potrebbe succedere ai giuramenti sulle Bibbie e alle “guerre sante” dei loro presidenti, se la scristianizzazione dovesse rivelarsi irreversibile.
Non è un paese per cristiani
Stati Uniti, hanno la popolazione cristiana più numerosa del pianeta – 210 milioni di persone –, e sono casa della più ampia comunità protestante – 140 milioni –, ma un domani potrebbero non essere troppo differenti dalla vecchia e atea Europa.
Il quadro dello stato di salute del cristianesimo statunitense, dipinto dai più importanti barometri di tendenze sociali degli Stati Uniti, Gallup e Pew Research Center, è a tinte fosche. Il numero di credenti praticanti e non praticanti è in diminuzione su base annua, la convinzione che gli Stati Uniti siano una “nazione cristiana” fa sempre meno presa e tradizioni sedimentate – come il congregazionalismo – vanno sparendo dall’orizzonte dell’americano medio.
La tendenza della scristianizzazione degli Stati Uniti sembra inarrestabile. Il declino è iniziato da qualche parte tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, quasi in concomitanza con l’inizio dell’età d’oro repubblicana, e da allora non si è più fermato. Il fenomeno è ben fotografato dai numeri:
- 9 americani su 10 erano cristiani nel 1976, 8 su 10 nel 2001 e 6 su 10 nel 2021;
- Il congregazionalismo è stato la realtà di 7 americani su 10 per circa quarant’anni – dagli anni Quaranta agli Ottanta –, ma dal 2020 è pratica di soltanto 4 su 10;
- 18 stati federati presentano tassi “europei” di frequenza in chiesa, essendo i praticanti meno del 30% della popolazione;
La fine della Città sulla collina?
Il 64% degli americani pensa che gli Stati Uniti abbiano smesso di essere un paese cristiano e il 51% è dell’idea che, succeda quel che succeda, non dovrebbero aspirare a tale titolo – percentuale che sale ad un eccezionale 76% tra Millennials e Generazione Z. Per di più, va aumentando la porzione di chi crede che i Padri fondatori non volessero edificare una nazione ispirata dalla Bibbia – il 37%, che diventa 49% tra i rispondenti in età 18-29 e 52% tra gli elettori democratici. Questi i risultati di un’indagine effettuata dal Pew Research Center nel 2022.
Il futuro degli Stati Uniti sembra essere indubbiamente senza Dio, perlomeno il Dio cristiano, ma non è detto che ciò avrà necessariamente riverberi negativi sulla loro postura internazionale. Perché se è vero che la secolarizzazione va di pari passo con l’avversione al nazionalismo cristiano, lo è altrettanto che l’hobbesiana realtà delle relazioni internazionali continuerà ad imporre alla Città sulla collina di agire nel mondo. Il fardello del poliziotto globale, anche se meno assertivo e con meno competenze di un tempo.
L’ingresso degli Stati Uniti nell’era postcristiana potrebbe comportare dei mutamenti più di forma che di sostanza. L’internazionalismo liberale in luogo dell’interventismo messianico – lo stesso eccezionalismo di sempre, ma presentato con un volto diverso. Nuovi instrumenta regni da esportare – oggi protestantesimo evangelico e sovranismo, domani wokismo e parenti. Nuove fedi in cui credere – idee politiche divinizzate, nuovi movimenti religiosi, spiritualità laiche. Ma i medesimi imperativi strategici di sempre: dollarocrazia, primazia nell’emisfero occidentale e divide et impera in Eurasia.