Nella giornata di giovedì 22 ottobre Cina e Santa Sede rinnoveranno gli accordi siglati due anni fa e destinati a normare le relazioni (per ora) informali tra Pechino e l’Oltretevere e a consolidare il processo comune della nomina dei vescovi nella Repubblica Popolare. Lo scrive il vaticanista Massimo Franco sul Corriere della Sera, citando le fonti diplomatiche vaticane da lui consultate secondo cui giovedì “alle ore 12 a Roma corrispondenti alle 18 a Pechino, la Santa Sede e il governo cinese comunicheranno in simultanea la proroga di due anni del loro Accordo provvisorio e segreto”.

La giornata del 22 ottobre era già estremamente importante per la Chiesa in quanto celebrazione liturgica di San Giovanni Paolo II nell’anno del centenario della nascita del Papa polacco. Ora la data acquisirà una valenza “politica” ulteriormente accentuata, sancendo il rinnovo dell’intesa tra la Santa Sede e l’Impero di Mezzo, fortemente cercata da Papa Francesco. Un’intesa che è funzionale alla grande strategia geopolitica del Vaticano di Francesco, intento a governare la transizione multipolare del sistema internazionale e a guardare nell’Oriente una frontiera fondamentale per la Chiesa. E che attende ancora un reale perfezionamento, dato che il processo di nomina dei vescovi che Santa Sede e Pechino stanno studiando implica impone concessioni notevoli da entrambe le parti.

La Chiesa cattolica, da un lato, mira a formalizzare un vero e proprio “Concordato” sulla scia di quelli conclusi in passato con diversi regimi (da quello napoleonico alla Germania nazista) o con governi aventi rapporti problematici con il Vaticano (ad esempio il Messico) ed ha concesso già nel 2018 l’obbligo, per il clero cattolico cinese, di firmare una registrazione all’Associazione patriottica cattolica cinese, dipendente da Pechino, e di riconoscere l’indipendenza della Chiesa locale da Roma. Al contempo, non è da sottovalutare il fatto che concedendo anche al Vaticano voce in capitolo per nominare i vescovi della Chiesa cinese, che saranno parallelamente figure episcopali e “funzionari” nazionali, per la prima volta nella sua storia la Cina ha espressamente concesso in maniera volontaria a un’altra potenza di scegliere figure di rango istituzionale nel suo contesto nazionale. Un processo, dunque, tanto complesso da poter far pensare che gli “imperi paralleli” che danno il nome a un omonimo saggio di Franco non siano più solo due (Vaticano e Stati Uniti) ma tre, con l’aggiunta della Cina, che al pari di Washington ritiene imprescindibile la ricerca di un accordo con la Santa Sede.

E proprio Washington appare la grande sconfitta del rinnovo dell’accordo sino-vaticano. Nelle scorse settimane abbiamo assistito al vero e proprio isolamento di Mike Pompeo da parte di Papa Francesco durante la sua visita romana. Pompeo, in un editoriale su First Things, aveva attaccato duramente l’ipotesi del rinnovo degli accordi, e Bergoglio si è rifiutato di dargli udienza durante la sua recente visita romana che lo ha anche portato a un simposio sulla libertà religiosa organizzato dall’ambasciata a stelle e strisce presso la Santa Sede. Pietro Parolin, omologo del Segretario di Stato statunitense, ha voluto rubricare alla necessità di Pompeo di fare campagna elettorale per Donald Trump tra i cattolici americani gli strali anti-cinesi dell’ex capo della Cia, ma la realtà di fondo è che le strategie geopolitiche degli Usa e del Vaticano targato Papa Francesco divergono notevolmente.

Bergoglio ha schivato con destrezza tutte le possibili “mine” pronte a essere messe sul suo terreno, non prendendo esplicitamente posizione su dossier strategici per gli Usa nel contenimento di Pechino quali quello delle proteste a Hong Kong o quello sulle voci di repressioni in Xinjiang, che la Santa Sede preferisce segnalare come questioni interne alla Repubblica Popolare. Anzi, secondo i diplomatici sentiti da Franco in Vaticano è forte la sensazione che “Pompeo ci ha fatto un favore. Ha dimostrato che la nostra linea non è condizionata da nessuno. Per paradosso, ci ha rafforzato nella trattativa con Pechino”. Così come può aver rafforzato la Santa Sede il diniego del Papa di incontrare l’anziano cardinale di Hong Kong Joseph Zen, giunto vanamente a Roma per chiedere udienza al pontefice e esprimere le sue riserve su un accordo rimasto oscuro allo stesso episcopato cinese.

Firmato il rinnovo, si aprirà per Cina e Vaticano la partita più difficile: che fare dell’intesa? Bisogna accelerare sulle nomine e spianare la questione spinosa della Chiesa sotterranea cinese, che troppo spesso risulta parallela a quella “patriottica” e rischia di subire repressioni in nome del legame sino-vaticano. Ma vi è anche il nodo spinoso del percorso verso il pieno riconoscimento bilaterale, necessario per aprire la strada a un incontro tra Papa Francesco e Xi Jinping. Dal 1951 Cina e Santa Sede non hanno relazioni bilaterali ufficiali formalizzate, e dal 1942 il Vaticano riconosce come interlocutore principale la Repubblica di Cina (Taiwan). Un accordo incompleto è stato valutato meglio dell’assenza di un accordo, e bisognerà valutare quanto si assisterà a un’accelerazione, nei prossimi mesi, su ulteriori passi in avanti e quanto aumenterà il pressing Usa per evitare che una maggiore vicinanza al Vaticano legittimi eccessivamente Pechino nella comunità internazionale.





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