Washington chiama, ma Roma non sembra rispondere. Un telefono che squilla ininterrottamente (e forse non solo metaforicamente) e a vuoto sia a Palazzo Chigi che alla Farnesina. Potrebbe essere questa l’immagine di ciò che sta accadendo in queste ore sull’asse Italia-Stati Uniti, visto che ci sono molti dossier in gioco su cui il governo italiano deve decidere e su cui l’amministrazione americana vorrebbe capire quali saranno le decisioni prese. Sullo sfondo l’inevitabile scontro con la Cina e quella nuova grande guerra fredda che sta coinvolgendo l’intero pianeta e di cui l’Italia appare sempre più come un laboratorio. Washington vorrebbe certezze da parte italiana: ma questa richiesta di garanzie da parte dei giallorossi sembra essere difficile da ottenere. E di questa continua oscillazione del governo italiano, nella capitale americana cominciano a essere particolarmente scontenti.
L’ultimo tuono da parte degli Stati Uniti è arrivato su uno dei fronti più caldi dello scontro con la Cina: il mercato tecnologico e le telecomunicazioni. Come riportato da La Stampa, finti di parte Usa hanno parlato di un vero e proprio scontro sull’accordo tra Tim e Kkr per la rete unica. Il possibile ricorso del governo italiano al golden power ha suscitato non poche irritazione da parte dell’imponente fondo americano, tanto che si è parlato anche di una telefonata tra Henry Kravis, cofondatore di Kkr, con l’ambasciatore americano in Italia Lews Eisenberg, che fu anche consulente per la società Usa.
Quello che può apparire come un problema di ordine meramente economico, racchiude in realtà un profilo politico di straordinaria importanza. La questione del golden power nasce infatti come protezione voluta da ambienti atlantici ed europei proprio per evitare che aziende esterne, in particolare cinesi, potessero inserirsi nelle infrastrutture nevralgiche dei Paesi Nato. La richiesta giunta all’allora governo giallo-verde per una legislazione che frenasse l’avanzata dei giganti di Pechino era stata poi approvata come primo gesto del governo giallo-rosso, quasi a voler indicare una continuità strategica tra il Conte I e il Conte II. Tuttavia sarebbe adesso paradossale nell’ottica americana se una regolamentazione voluta proprio come pilastro dell’alleanza occidentale fosse usata per bloccare un accordo tra Italia e usa e non venisse invece sfruttata per opporsi all’ingresso di Huawei. E in ogni caso agli americani non piacerebbe che l’inserimento cinese arrivasse attraverso Cdp reti.
Una questione scottante su cui il governo si è già dimostrato spaccato e su cui pesa anche la divisione politica e ideologica in seno alla maggioranza e allo stesso esecutivo. Non è un mistero che da parte del Movimento 5 Stelle, a partire da Beppe Grillo, vi sia una forte affinità con la Cina e una posizione avversa ai voleri degli Stati Uniti. Anche in campo tecnologico oltre che politico. Mentre all’interno del Partito democratico, se da una parte esiste una forte corrente attenta alle sirene di Pechino, c’è una grossa (e potente) fetta di partito che ascolta con più attenzione Washington e Bruxelles. A partire dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che già da capo del Copasir aveva mostrato notevoli perplessità sul tema delle infrastrutture digitali. Perplessità ribadite dal successore. Raffaele Volpi, e dal vice, Adolfo Urso.
In questi giorni il governo dovrà dare alla parte americana una risposta. E non è detto che non ci siano forti ripercussioni. Prima di tutto perché Donald Trump, nei giorni scorsi, ha ribadito che chiunque faccia entrare Huawei nei propri sistemi digitali sarà esclusa immediatamente dalla condivisione dei dati di intelligence da parte di Washington. Minaccia che è apparso un ultimatum per tutti i Paesi europei, a cominciare proprio dall’Italia giallorossa. In secondo luogo. non va sottovalutato il fatto che questa decisione potrebbe arrivare in concomitanza con lo sbarco a Roma di Wang Yi, ministro degli Esteri della Repubblica popolare cinese. Il potente diplomatico di Pechino arriva a Roma con l’idea di riprendere il discorso della Nuova Via della Seta, congelata in concomitanza del lockdown mondiale dovuto al Covid. Ma la Cina vuole rimettere in moto la macchina e adesso aspetta che dall’Italia si compia il primo passo partendo da due pilastri del progetto asiatico: porti e tecnologia. Gli stessi su cui gli Stati Uniti hanno già messo dei forti paletti e su cui i servizi segreti hanno ampiamente sconsigliato di far approdare il Dragone.
Per Giuseppe Conte, che ha per troppo tempo dilazionato i tempi delle trattative, potrebbe essere arrivato il momento della verità. I ministri dem, come ha scritto La Verità, potrebbero anche minacciare (o direttamente provocare) una crisi di governo, visto che i legami atlantici non sono trascurabili in una compagine come quella cui appartengono. E l’impressione è che su questo punto Washington non transiga, a costo di far saltare il banco. Una resa dei conti che al premier, in questo momento, potrebbe costare molto caro soprattutto perché i dossier bollenti che l’Italia condivide con gli Stati Uniti sono essenziali su diversi punti strategici e potrebbero avere ripercussioni enormi da un punto di vista politico, strategico ed economico. Washington ha da tempo posato il suo occhio su Roma e sulle mosse dei governi italiani.