Vladimir Putin è colui che ha assunto il potere all’apice della stagione di turbolenze sociali ed economiche che scossero la Federazione russa a cavallo fra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. A lui il merito di aver salvato il Caucaso settentrionale e la regione del Volga dalla deflagrazione, ponendo fine ad un decennio di insorgenza e terrorismo, di aver riportato l’economia sul viale della crescita e, soprattutto, di aver reintrodotto la Russia nell’alveo dei grandi protagonisti delle relazioni internazionali.
Figura tanto affascinante quanto divisiva anche all’interno della stessa Russia, Putin verrà ricordato dai posteri per una moltitudine di ragioni: da quelle menzionate poc’anzi all’aver restituito Mosca al proprio legittimo destino, cioè quello di essere la Terza Roma, passando per l’onere di aver dovuto affrontare il risveglio dal sonno della guerra fredda con l’Occidente. In quest’ultimo caso, a lui il riconoscimento per aver evitato che la Siria della famiglia Assad e il Venezuela di Nicolas Maduro seguissero il fato dell’Iraq di Saddam Hussein e della Libia di Mu’ammar Gheddafi, ma a lui anche una serie di gravi responsabilità: dalla “perdita” dell’Ucraina alla caduta del monopolio russo sull’intero spazio postsovietico.
Numeri e fatti dissonanti alla mano, la domanda sorge spontanea: Putin, già soprannominato “lo zar” dalla grande stampa occidentale, verrà ricordato dai posteri come un padre fondatore alla Pietro il Grande o come una vittima del fato alla Alessandro II? Nell’impossibilità di prevedere il futuro, cerchiamo di apprendere dal passato e di leggere il presente: questo è quanto accaduto durante l’era Putin nel Caucaso meridionale.
La guerra con la Georgia
Nei primi giorni del 2008 una serie di eventi ha portato al termine del cessate il fuoco tra Georgia e Ossezia del Sud, una repubblica filorussa, de iure non riconosciuta ma de facto indipendente, nata nei giorni convulsi della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tra il 7 ed il 12 gennaio scoppiò una guerra tra Georgia, Russia, Ossezia del Sud e Abkhazia, conclusasi dopo che l’allora presidente russo, Dmitrij Medvedev, annunciò la fine della sua campagna di “imposizione della pace” in Georgia. Prima di addentrarci nella trattazione della questione russo-georgiana, è doveroso fare un salto indietro, per avere un inquadramento storico.
Le ostilità tra l’Ossezia del Sud e la Georgia iniziarono nel 1989, all’epoca della disintegrazione dell’Unione Sovietica. Allora la Georgia aveva appena ottenuto il riconoscimento come Stato indipendente e altre repubbliche nella regione del Caucaso ricercavano una soluzione simile. Tra di esse, le russofone ma georgiane Ossezia meridionale e Abkhazia sono state sicuramente quelle più “attive” in questa ricerca. Tuttavia, il rifiuto georgiano di riconoscerne l’autonomia portò presto a rivolte e ad una guerra su vasta scala nel 1990 tra l’Ossezia del Sud e la Georgia, che innescò qualche anno più tardi, nel 1992, il conflitto in Abkhazia. La guerra si concluse con una situazione di stallo (uno dei tanti “conflitti congelati” post dissoluzione dell’Urss) e vide l’istituzione della commissione congiunta di controllo per la risoluzione del conflitto georgiano-osseto (Jcc) con pari rappresentanza tra Georgia, Russia, Ossezia meridionale e Ossezia settentrionale.
La separatista Ossezia del Sud è stata successivamente riconosciuta dal governo georgiano, tuttavia, a livello internazionale, non è avvenuto altrettanto. La Russia ha sempre sostenuto il popolo dell’Ossezia meridionale, concedendo loro la cittadinanza dopo lo scoppio della guerra nel 1990. In generale Mosca è stata sempre ben disposta nei confronti dell’Ossezia del Sud, andando pertanto a causare un deterioramento ulteriore dei rapporti con Tbilisi. Del resto la finalità del Cremlino è stata sempre quella di avere una qualche forma di controllo diretto di quei Paesi, nati proprio dal disgregarsi dell’Urss, che considera appartenenti alla propria sfera di influenza, Georgia compresa.

I prodromi del conflitto del 2008 vengono, però, gettati molto più tardi, nel 2006, quando un referendum per l’indipendenza dell’Ossezia del Sud ottiene percentuali bulgare: il 99% degli osseti vuole l’autonomia totale dalla Georgia. La miccia del conflitto nasce però il primo agosto del 2008 quando un camion che trasportava agenti di polizia georgiani attraverso Tskhinvali viene colpito da una bomba che ferisce cinque uomini. La milizia georgiana reagisce organizzando un assalto alle caserme dell’Ossezia meridionale che innesca una spirale di attacchi via via più importanti tra le due parti.
Quando il presidente georgiano Sakashvili, il 7 agosto, decide di attaccare in massa l’Ossezia del Sud, forse confidando in un appoggio non solo diplomatico di Unione europea e della Nato, la Russia, che aveva già mobilitato le sue divisioni: interviene, e lo fa massicciamente, lanciando una piena invasione della Georgia con attacchi aerei e terrestri.
Le reali cause scatenanti dell’invasione georgiana hanno poca importanza: Mosca, per la prima volta, reagisce in modo determinato per recuperare lo status quo e approfittare della situazione per continuare ad avere il controllo sul Caucaso, ovvero sul suo confine meridionale. La stabilità in quella regione, già provata dall’estremismo islamico in Cecenia, è infatti vitale nella dottrina di Mosca, che teme un potenziale effetto domino interno.
Le Forze Armate russe a quel tempo erano in fase di modernizzazione, nella struttura, nella dottrina di impiego e nei mezzi, e nonostante fossero, sostanzialmente, ancora improntate al modello sovietico, la vittoria fu fulminante: la Georgia perse parte del territorio a favore della neonata Repubblica dell’Ossezia del Sud, che ottenne l’indipendenza anche se non riconosciuta a livello internazionale. Parallelamente, però, le relazioni tra Russia e Georgia si deteriorarono definitivamente e consegnarono Tbilisi “mani e piedi legati” nelle braccia dell’Occidente e della Nato.
La Georgia ha sviluppato dapprima un lento approccio verso l’Alleanza: prima di quel conflitto, nel 1994, è entrata nella Partnership for Peace (di cui ha fatto parte anche la Russia), successivamente, a seguito della Rivoluzione delle Rose del 2003 i legami si sono stretti ulteriormente anche grazie all’azione di agenti esterni, mossi dagli Stati Uniti, ma è solo dopo il conflitto del 2008 che il Paese avvia colloqui e trattative che portano a misure di cooperazione tra Nato e Georgia che culminano con la dichiarazione di Jens Stoltenberg, segretario generale dell’Alleanza, del dicembre del 2017 a sostegno di una “eventuale adesione alla Nato” della Georgia. Un’eventualità temuta fortemente da Mosca, che ha fatto sapere che produrrebbe effetti disastrosi nei rapporti tra Russia, Nato e Georgia, ma che appare sempre più inevitabile proprio in funzione dell’esito del conflitto del 2008, che ha mostrato all’Occidente per la prima volta la rinnovata aggressività russa, e che, per assurdo, ha palesato l’incapacità di Mosca di risolvere una volta per tutte i “conflitti congelati” del Caucaso riaffermando la sua sfera di influenza: il controllo diretto su Abkhazia e Ossezia di certo non vale la perdita della Georgia e la sua consegna alla Nato, proprio per la posizione geografica del Paese.
Gli Stati Uniti hanno pertanto saputo inserirsi sapientemente in questa “frattura”, ed ora la Georgia fa da sponda, insieme a Ucraina, Romania, Bulgaria e Turchia (anche se ora ritenuta inaffidabile dall’Alleanza per motivi ben noti) al fronte del Mar Nero, in una sorta di “abbraccio” che circonda la Crimea e la regione di Krasnodar.
Armenia e Azerbaigian
La disgregazione dell’Unione Sovietica ha comportato la perdita degli storici cortili di casa del Cremlino, ovverosia gli –stan dell’Asia centrale e il conflittuale trio del Caucaso meridionale. Queste due regioni hanno storicamente rappresentato delle porte d’accesso alla Russia, proprio come l’Ucraina, e, oggi, le chiavi per aprirle sono a disposizione di una costellazione nutrita e variegata di potenze. Il mondo russo, in sintesi, non è mai stato così poco russo.
Escludendo la Georgia, la cui bussola sembra essere stata ricalibrata in maniera definitiva verso ponente, la Russia ha dovuto affrontare l’insorgere di complicazioni anche in Armenia, teatro della “rivoluzione di velluto” nel 2018 e sulla quale l’influenza è stata ripristinata soltanto per merito del modo in cui è terminata la seconda guerra del Nagorno Karabakh, e Azerbaigian, il quale rappresenta un caso a se stante di attore divenuto strategicamente autonomo.
Ma se la seconda guerra nel Nagorno Karabakh non fosse scoppiata, che cosa sarebbe accaduto? Questa è la domanda che dovrebbero porsi nelle stanze dei bottoni del Cremlino. La guerra, non la pace, ha permesso a Mosca di riaffermare il proprio ruolo di mediatore nel Caucaso meridionale e riportare la ribelle Erevan sotto il proprio controllo. E, adesso che v’è nuovamente concordia, è il momento di pensare con lungimiranza al dopo-Pashinyan in maniera tale da evitare che l’Armenia segua il destino della Georgia e diventi nuovamente teatro di una rivoluzione colorata.
L’Azerbaigian, invece, è un caso unico nel panorama caucasico. Né russa né turca, ma autonoma e anelante alla preservazione dello status acquisito, Baku ha trovato i mezzi per l’emancipazione economica nel petrolio e nel gas e per quella geopolitica nel leveraggio della geografia e nella coltivazione dell’arte diplomatica. L’influenza del Cremlino continua ad essere rilevante, ma l’Azerbaigian del 2021 non è un satellite né un protettorato: è una potenza regionale con una propria agenda estera e con un proprio circuito di alleanze.
Legato a doppio filo a Turchia e Israele, nonché partner fondamentale della Cina nel quadro della Nuova via della seta, l’Azerbaigian è strategicamente autonomo e collabora con la Russia laddove vi sono convergenza di interessi e comunanza di visioni. Il Nagorno Karabakh è l’esempio più lampante delle potenzialità dell’asse sinergico russo-azero, ma un altro traguardo rilevante, tagliato di recente, è il collegamento ferroviario Ankara-Baku-Mosca.
In sintesi, come Baku è consapevole del potere promanante e derivante dal leveraggio intelligente del proprio posizionamento geografico – ragion per cui ha foggiato una politica multivettoriale e improntata alla collaborazione profittevole con chiunque sia in grado di mettere qualcosa di concreto sul piatto della bilancia –, così Mosca sa di poter fare leva sull’antica rivalità armeno-azera per ripristinare il controllo su Erevan in casi emergenziali; ma la durata del gioco è condizionata al contenimento simultaneo dell’infuenza turca su Baku, che non deve essere lasciata crescere oltre la soglia del non ritorno. Perché le rivoluzioni colorate sono soltanto una parte del problema: è la Turchia, che agisce nel Caucaso meridionale in qualità di ariete e quinta colonna dell’Occidente in chiave antirussa, la variabile di cui tenere conto e i cui movimenti andranno pronosticati e prevenuti laddove possibile.
L’eventuale traslazione in realtà del cosiddetto corridoio panturco, comunque, non lavorerebbe in senso totalmente contrario agli interessi del Cremlino: l’accresciuta sensazione di accerchiamento sperimentata e vissuta dall’Armenia, infatti, incoraggerebbe anche le dirigenze più filo-occidentali a ripiegare sulla Russia, che, proprio lungo il confine con la Turchia, possiede una base militare che attende di essere potenziata. La partita per il Caucaso, in breve, è ancora aperta e Mosca ha una serie di jolly da giocare.