Il vento dell’Est continua a soffiare sull’Unione europea. Dopo la vittoria austriaca di Kurz, adesso è la volta della Repubblica Ceca, che vede la vittoria del partito populista “Ano 2011” di Andrej Babis, l’ex ministro delle Finanze che da molti è ormai considerato il “Trump” di Praga.
A scrutinio concluso, il partito di Babis sembra aver raggiunto il primo posto con il 29,7% dei voti. Non un trionfo, in termini di maggioranza popolare, ma tanto basta per garantirgli il primo posto in un’elezione che ha il sapore della vittoria dei partiti anti-establishment ed euroscettici rispetto a quelli tradizionali. Il Partito Civico Democratico (Ods), di idee più conservatrici ed euroscettiche, è arrivato secondo con l’11,2 %, mentre al terzo e quarto posto ci sono, a dividerli pochissimi voti di stacco, il partito anti-casta dei Pirati e quello di destra più radicale Libertà e Democrazia diretta (Spd) che si aggirano intorno al 10,7% dei consensi. Da registrare il crollo vertiginoso del partito socialdemocratico, che perde circa 12 punti percentuali, ottenendo solo il 7 per cento dei consensi.
Il risultato delle elezioni ceche è in linea con quanto sta avvenendo in tutta l’Europa orientale (e non solo). I movimenti che rappresentano la protesta contro i partiti figli della classe dirigente che ha governato i rispettivi Paesi, prendono consensi inimmaginabili fino a pochi anni fa, riuscendo a incanalare il sentimento comune dell’elettorato contrario alla politica tradizionale. La vittoria di Babis in Repubblica Ceca è perfettamente in linea con questa tendenza. Il leader di Ano è riuscito negli anni a proclamarsi vicino ad Obama, poi ad Orban, poi a Trump, e, nonostante questa ondivaga linea politica, è riuscito a costruirsi un’immagine di novità rispetto all’establishment. Ed era proprio quello che l’elettorato ceco si aspettava. Grazia a un impero mediatico e finanziario che lo porta ad essere il secondo uomo più ricco del Paese, Babis è riuscito a creare un movimento che in pochissimi anni ha raggiunto il maggioranza relativa del popolo ceco e oggi si ritrova a dover guidare il futuro governo. Un governo che, stando a quanto sostenuto da Babis in campagna elettorale, sarà certamente improntato a una rottura degli scemi tradizionali della politica ceca oltre che a un rigido scontro con i burocrati dell’Unione europea, in particolare sul tema dei migranti su cui il leader di Ano è stato chiarissimo.
Questa lotta senza quartiere alla politica migratoria imposta da Bruxelles e soprattutto alla politica delle quote di migranti è stata il centro della battaglia politica di Babis. Una battaglia con cui il leader ceco ha trascinato dietro a se tutti gli altri partiti, tanto che gli stessi socialdemocratici del presidente uscente si sono detti contrari alla distribuzione dei migranti. E sotto questo profilo, è chiaro che il cambiamento politico avvenuto oggi a Praga assesta un altro duro colpo alle scelte centrali di Bruxelles e colloca sempre di più la Repubblica Ceca al centro di quel fenomeno culturale e politico che sta da tempo caratterizzando il gruppo Visegrad. L’euroscetticismo è ormai diventato un cardine della politica del gruppo composta da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. E sono in molti a ritenere che la vittoria di Kurz in Austria sia il preludio a un ingresso di Vienna non tanto nel gruppo Visegrad quanto nell’orbita dei Paesi euroscettici. E il fatto che il fenomeno migratorio abbia fatto così presa sul popolo ceco, è interessante soprattutto se relazionato con l’esiguo numero di immigrati rispetto alla popolazione, che non raggiungono lo 0.23% su 10 milioni di abitanti.
Quello che è evidente, dunque, è che anche in un Paese sostanzialmente poco colpito dal fenomeno migratorio, come appunto lo è la Repubblica Ceca, c’è il timore che le politiche europee possano incidere sulla sicurezza collettiva. Questo dato è interessante per comprendere anche il futuro della stessa Unione europea, dal momento che con la vittoria di Babis a Praga, i governi che fanno riferimento alla socialdemocrazia e al centrosinistra in tutta l’Unione europea sono rimasti cinque, di cui uno il nostro. Solo cinque su 27 Stati. Mentre è evidente la crescita esponenziale dei fenomeni euroscettici e “populisti” in ogni Stato, sia a destra che a sinistra, come conseguenza dell’incapacità dell’Europa di far comprendere le proprie politiche. Gli Stati membri sembra che stiano dicendo all’Unione di cambiare, e l’Europa orientale guida questa rivolta che sta soffiando su tutto il continente.