Nelle ultime settimane, l’Etiopia è stata sconvolta da un’ondata di violenza che getta un’ombra sui tentativi messi in atto dal suo primo ministro, Abiy Ahmed, per modernizzare il Paese e distanziarlo sempre di più dai conflitti sociali e interetnici che per moltissimo tempo ne hanno segnato l’esistenza. Le riforme di Ahmed e la sua voglia di dialogo con le opposizioni e le frange più intransigenti delle diverse etnie hanno per ora avuto successo soltanto in parte, spingendo l’opinione pubblica locale e internazionale a porsi numerose domande sull’effettiva stabilità del governo di Addis Abeba e sull’efficacia delle misure intraprese da quest’ultimo. Tragici effetti collaterali o polveriera pronta a esplodere?

Un’amnistia pericolosa

Secondo Foreign Policy, le azioni intraprese da Ahmed hanno generato in molti casi un effetto domino dalle conseguenze imprevedibili: in primis, va citata l’amnistia concessa dal primo ministro nell’aprile del 2018, in seguito alla quale migliaia di prigionieri politici detenuti nelle prigioni etiopi hanno potuto riassaporare la libertà. Il processo di liberazione degli oppositori, iniziato già dal predecessore Hailemariam Desalegn prima delle sue dimissioni, ha però conosciuto sotto il nuovo premier un’accelerazione improvvisa, e decisamente incauta. Per i più critici, Ahmed avrebbe infatti sostanzialmente “spalancato i cancelli e gettato via le chiavi” pur di dare una parvenza di democratizzazione al Paese, senza preoccuparsi di effettuare una valutazione approfondita e caso per caso dei detenuti.

Uno di questi, Asamnew Tsige, è passato dal trovarsi all’ergastolo per un presunto tentativo di colpo di stato messo in atto nel 2008 all’essere a capo delle forze di sicurezza della regione degli Amhara, ruolo che occupava anche prima di essere arrestato. Noto per il suo intransigente nazionalismo etnico, lo scorso giugno, Tsige è stato tra i protagonisti di un tentativo fallito di golpe ai danni del governo locale, conclusosi con l’assassinio del presidente Ambachew Mekonnen e del generale Se’are Mekonnen, comandante delle forze armate etiopi. Lo stesso Tsige (nominato proprio da Ambachew Mekonnen) sarebbe poi stato ucciso durante la fuga, secondo quanto annunciato il 24 giugno da fonti ufficiali di Addis Abeba. Ma non basta: secondo alcuni critici (come il presidente della regione del Tigray, Debretsion Gebremichael) le riforme di Ahmed, il cui scopo annunciato è di aprire l’Etiopia al pluralismo e alla libertà d’espressione, sarebbero contraddette da azioni che vanno nel senso completamente opposto, come il licenziamento di 160 tra ufficiali e soldati appartenenti all’etnia tigrina e il fatto che lo stesso primo ministro abbia concesso una sola conferenza stampa in quasi un anno e mezzo di attività.

Scontri e vittime nel Sud

I tigrini non sono la sola etnia ad essere ostile al nuovo governo: negli ultimi giorni un’ondata di violenza ha scosso la Regione delle Nazioni, Nazionalità e Popoli del Sud, uno dei maggiori stati del Paese, a causa degli scontri tra forze di sicurezza ed esponenti del popolo Sidama, che costituisce il 4% della popolazione etiope. Quest’ultimo ha infatti unilateralmente proclamato una nuova entità federale su base etnica, dopo che lo scorso 18 luglio era scaduto il termine di un anno necessario per l’indizione di un referendum in merito (una prassi prevista dalla legge etiope, che permette -previa consultazione- la nascita di nuove entità territoriali nel caso ciò venga richiesto dalla maggioranza della popolazione). Nonostante i tentativi di calmare le acque messi in atto da Addis Abeba, che ha citato l’instabilità interna allo Stato come causa del ritardo, e la promessa di organizzare una votazione entro cinque mesi, le frange più estremiste dei Sidama hanno dato inizio a una ribellione su larga scala che ha provocato almeno 34 morti (cifra non ufficiale, come conferma l’Ethiopia Observer) e causato danni ingenti a villaggi, infrastrutture ed alberghi. Un chiaro esempio di come la politica interetnica di Abiy Ahmed stia avendo ben poco successo, come dimostrano anche gli scontri dello scorso settembre nella regione abitata dagli oromo: secondo gli oppositori del governo, il primo ministro (lui stesso un oromo) avrebbe infatti dato “troppa libertà” a movimenti per molto tempo classificati come illegali, come l’Oromo Liberation Front (Olf), bandito e perseguitato dai precedenti esecutivi a maggioranza tigrina.

Dall’idillio allo stallo

A un anno esatto dalla firma del trattato di pace e cooperazione con l’Eritrea, la situazione tra i due Paesi sembra essere ferma in un’impasse: anche in questo caso, la ragione sembra essere l’eccessiva rapidità con la quale il governo di Abiy Ahmed ha tentato di ristabilire i rapporti con l’ex nemico, riaprendo ambasciate, ristabilendo connessioni via terra e via aria, e permettendo il libero transito attraverso il confine. Quest’ultimo punto, tuttavia, risulta estremamente difficile da mettere in pratica a causa dell’ostilità della popolazione tigrina (che spesso considera le azioni del premier una sorta di “vendetta tardiva” nei loro confronti: un’eventualità da non escludere a causa delle tensioni da sempre in atto tra questi ultimi e gli oromo) e del partito dominante a livello locale, il Fronte di Liberazione del Tigrè, il cui territorio si trova proprio a ridosso della frontiera eritrea.

La stessa situazione interna ad Asmara non è delle più rosee: come riporta Voice of America, dall’entrata in vigore dell’accordo di pace ad oggi il numero di persone in fuga dal regime di Isaias Afewerki (molte delle quali hanno cercato asilo proprio in Etiopia) è aumentato di ben sette volte rispetto ai mesi precedenti. Il raffreddarsi degli entusiasmi tra le due parti, riconducibile anche ai timori di Afewerki (che vedrebbe in un legame troppo stretto con Addis Abeba una sorta di allentamento della propria morsa sul potere in patria), è un brutto colpo diplomatico anche per Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, i principali attori del trattato di pace e due tra le potenze più interessate -strategicamente e finanziariamente- al Corno d’Africa. Anche Pechino, attiva in Etiopia con numerose iniziative pubbliche e private (tra le quali spiccano la realizzazione della linea ferroviaria merci e passeggeri che collega il Paese a Gibuti, la presenza di medici cinesi negli ospedali locali, e la costruzione di alberghi extralusso nella capitale), potrebbe risentire dei problemi interni ed esterni che Ahmed si sta trovando ad affrontare, in primis l’aprirsi di ingenti debiti che, ad oggi, il governo etiope è ben lontano dal poter ripagare.

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