A Washington attendono ancora una risposta che da Roma non arriva. Il senatore Lindsey Graham, uno dei più potenti consiglieri di Donald Trump, alla vigilia della sua missione in Italia aveva parlato al Corriere della Sera in modo molto chiaro: gli Stati Uniti erano disposti a dare un aiuto all’Italia in Libia e su altri fronti, ma in cambio volevano un impegno italiano in Siria. Richiesta pubblica, sulle pagine del quotidiano di via Solferino, diventata poi privata e ufficiale attraverso i canali diplomatici, sia con Palazzo Chigi che con il Quirinale.

L’Italia in quell’occasione tentennò. Come sempre in questi casi e come sempre più spesso accade in questi anni. Di fronte a una richiesta così netta da parte dell’amministrazione americana, Enzo Moavero Milanesi si trincerò dietro l’impegno italiano in Libano con la missione Unifil. Dal momento che l’Italia è lì, al confine con la Siria, per frapporsi tra Israele e Hezbollah, non servirebbe quindi un coinvolgimento diretto nel conflitto siriano, specie in quel nord-est dove il Pentagono vorrebbe un impegno di tutti gli alleati al fine di ritirare definitivamente le truppe. Ritiro annunciato più volte dalla Casa Bianca ma che di fatto, tra le tensioni con l’Iran, le preoccupazioni di Israele, il mancato accordo con la Russia e la Turchia e l’incapacità degli alleati arabi di intervenire, non è mai stato preso seriamente in considerazione per l’immediato. Servirebbe l’intervento degli alleati occidentali: ma nessuno, a parte Francia e Gran Bretagna, appare disposto a scendere direttamente con i “boots on the ground”. Men che meno l’Italia, che paga una situazione interna che certo non permette questo tipo di decisioni. Da un lato per Roma è essenziale evitare impegni in un conflitto da cui si è sempre mantenuta alla larga, a parte un coinvolgimento nell’addestramento delle truppe curde. Dall’altro lato, sa che il ginepraio siriano non è prioritario rispetto ad altri fronti come la Libia oltre al fatto che non vuole inserirsi in un contesto politicamente molto complesso dove i rischi di scontri diplomatici e anche militari sono sempre all’ordine del giorno.

Il problema è che, come riportato da Il Corriere della Sera, Roma non ha risposto. E la questione è secondaria, dal momento che l’alleanza con Trump si basa sul rispetto di alcune richieste da parte della sua amministrazione che Palazzo Chigi non ha mai accolto con estremo favore. L’Italia giallo-verde si era presentata come migliore alleato del presidente Usa in Europa, ma tra rapporti con la Russia, tentennamenti con il Venezuela, memorandum con la Cina e mancato rispetto degli accordi sugli F-35 e sulle trivellazioni (i giganti Usa pensano ancora di fare causa allo Stato italiano), l’Italia non ha dimostrato di essere quel partner così ligio alle decisioni di Washington e dell’Alleanza atlantica. E sia chiaro: quelle italiane sono scelte assolutamente legittime. Ma nel momento in cui si richiede l’aiuto degli Stati Uniti in Libia, sulle esenzioni con l’Iran, sulle spese per la Difesa e sulla manovra economica chiedendo ai grandi fondi Usa di non punire troppo il nostro governo, è chiaro che qualcosa bisogna concedere. Altrimenti, il rischio di rompere con i patti è molto alto e soprattutto è pericoloso: perché le altre superpotenze, a loro volta, non si fidano dell’Italia. Le parole di Vladimir Putin, che a luglio è atteso in Italia, sono state chiarissime: non si aspetta nulla dall’Italia in quanto Stato fedele a Nato e Unione europea. Una dichiarazione che serviva a evitare accuse di filo-russismo al governo, ma che indica anche una sorta di “scarico di responsabilità” su un possibile asse Roma-Mosca per riequilibrare i rapporti fra Russia ed Europa. E anche sul fronte cinese, il fatto che poi l’Italia abbia fatto marcia indietro su una serie di punti degli accordi su pressione Usa ha chiaramente influito sulla capacità di trasformarsi in un grande polo d’attrazione. Prova ne è che mentre con Francia e Germania sono stati siglati accordi di decine di miliardi di euro, con l’Italia è stato concluso un memorandum d’intesa formalmente più importante ma sostanzialmente molto meno rilevante di quello concluso a Parigi.

A questo punto la domanda è semplice: cosa risponderà l’Italia? È chiaro che rimandare non possa essere di grande utilità. Il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha evitato accuratamente di parlare di questo dossier anche con i parlamentari. Ma la Siria prima o poi tornerà a essere motivo di dibattito: perché agli Stati Uniti una risposta va data. E il problema è che Palazzo Chigi non vorrebbe rispondere per evitare due fattori: discussione interna fra alleati e possibile reazione negativa dall’America. Perché l’Italia in Siria non vuole andarci: ma il rischio di scontrarsi ancora una volta con gli Stati Uniti con una tempesta economica in arrivo e con l’Europa che ci isola, non è una mossa molto furba. La situazione ora può diventare davvero difficile.

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