Una rassicurazione per Israele? Un nuovo corso con Teheran? Un esperimento? Forse tutte e tre le cose assieme il nuovo tentativo di Washington di riaprire il dialogo con l’Iran, abbozzando una road map leggera come un accordo temporaneo, nella quale dosare bastone e carota. Da un lato, resterebbero in piedi le sanzioni precedenti, dall’altro si farebbe sfoggio di apertura negoziale, proprio mentre Teheran alza la posta in gioco, strillando la sua intesa con Mosca e Pechino a pochi giorni dal meeting di Vienna previsto per il 29 novembre.

L’allarme dall’IAEA

Nel frattempo, un nuovo allarme giunge dall’ultimo report dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA): la sua stima delle scorte dell’Iran, al 6 novembre, era molte volte superiore al limite stabilito nell’accordo del 2015 con le potenze mondiali. L’IAEA, tuttavia, non è stata in grado di accedere ai filmati di sorveglianza dei siti nucleari iraniani, ai monitor di arricchimento e ai sigilli elettronici da febbraio. Il capo dell’agenzia, Rafael Mariano Grossi, visiterà Teheran lunedì prossimo per discutere del programma nucleare. Lo stesso Grossi ha espresso più volte la sua preoccupazione circa la mancanza di comunicazioni con Teheran (uniche eccezioni erano state “conversazioni tecniche” con il nuovo capo dell’energia atomica iraniano Mohamed Eslami) sperando di incontrare i funzionari iraniani prima della prossima riunione del Consiglio dei governatori dell’Agenzia. La sua ultima visita in Iran è stata a settembre, quando ha concluso un accordo sull’accesso alle apparecchiature di monitoraggio negli impianti nucleari iraniani.

L’Iran ora si vanta di aver prodotto 210 kg di uranio arricchito al 20% e 25 kg al 60%, un livello che nessun Paese, a parte quelli con armi nucleari, è in grado di produrre.

Da dove nasce l’idea

L’idea dell’accordo temporaneo sembra essere nata dal Consigliere per la sicurezza nazionale americano Jake Sullivan, nel mezzo della discussione dei prossimi step sul dossier nucleare con il suo omologo israeliano Eyal Hulata. Fonti americane affermano che Sullivan e Hulata fossero insieme in un mero brainstorming e che la proposta sarebbe stata, in realtà, suggerita da un alleato europeo non specificato, secondo il sito di notizie Axios.

Una strategia per temporeggiare, in vista di un accordo più consistente, dunque: questa linea, tuttavia, sembra cozzare con il mood della presidenza Biden, che continua a insistere sul ripristino secco dell’intero accordo nucleare del 2015. L’idea di base potrebbe incentrarsi su un freno all’Iran (ad esempio, sull’arricchimento dell’uranio al 60%) a cui seguirebbe, da parte americana, il rilascio di alcuni fondi iraniani congelati o fornire deroghe alle sanzioni sui beni umanitari. Ancora ostruzionismo da Tel Aviv, che teme che qualsiasi accordo provvisorio possa divenire permanente, consentendo all’Iran di mantenere le sue infrastrutture nucleari e le scorte di uranio.

La missione Malley

Robert Malley, l’inviato speciale degli Stati Uniti in Iran, visiterà la regione per la seconda volta nel giro di poche settimane, cercando di consultarsi con gli alleati regionali sulle prospettive di ripristinare il clima del 2015. L’Iran è ormai un Paese con credibilità prossima allo zero: a nessuno è dato sapere quanto possano essere credibili eventuali promesse negoziali in quel di Vienna, da parte di una nazione che si sta facendo terra bruciata attorno; dallo Yemen all’Iraq, dal Libano alla Siria, i suoi vicini sono in allarme soprattutto per via del programma missilistico a lungo raggio e degli attacchi con droni utilizzati per condurre attentati e sabotaggi. L’accresciuta aggressività iraniana si gonfia al vento della convinzione di negoziare dal lato forte mettendo sotto scacco l’Occidente, alzando l’asticella delle proprie richieste.

L’accordo temporaneo, dunque, prevedrebbe un do ut des circoscritto che, tuttavia, non risolve il problema dell’accresciuta virulenza della politica estera del regime degli ayatollah. L’accordo può funzionare se propedeutico a un’architettura di sicurezza regionale nella quale includere il raffreddamento delle ambizioni di Teheran nell’area, che passano dalla guerra nello Yemen, dal coinvolgimento in Iraq, Siria e Libano, dal progetto dei ponti di terra e dagli interventi proxy. Washington, però, sa che allargare la cornice significa tornare a farsi coinvolgere dalle vicende del Grande Medio Oriente, abbandonate in nome del pivot to Asia. Paradossalmente, l’assenza di grande respiro degli accordi infinitesimali di cui si vocifera conviene a entrambe le parti: gli Stati Uniti, in nome del vorrei-ma non posso, sorvolano sulle questioni regionali per restarne fuori; Teheran è invitata a nozze, perseverando nelle sue ambizioni da regina (occulta) del Medio Oriente, a scapito di una nazione che sta patendo da anni le conseguenze delle sanzioni.

Nel frattempo il tempo passa e, mentre i progressi dell’Iran accelerano, nemmeno il JCPOA potrebbe più essere sufficiente.





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