Tra il presidente Trump e il mondo di Hollywood non c’è mai stato (per usare un eufemismo) un rapporto idilliaco. Le stelle del cinema americano, ma in generale di tutto il mondo dello spettacolo, dell’intrattenimento e dello sport Usa, non hanno mai approvato il presidente degli Stati Uniti sin dal tempo della sua candidatura alle primarie del partito repubblicano. E non hanno mai avuto problemi ad attaccarlo nemmeno una volta eletto alla Casa Bianca. In questo divario fra Trump e questo universo delle star americane c’è un po’ anche la metafora della vittoria del movimento del presidente Usa contro la sfidante Hillary Clinton. L’idea che ci sia un’America, un’America profonda, diversa e completamente distante da quella che appare in televisione e nei cinema, è un’idea che diventa realtà concreta anche in questi frangenti, dove il divario si fa sempre più largo. Il primo a renderlo chiaro fu il regista Michael Moore, che dall’estate del 2016 scrisse una famosa lettera in cui diceva a tutti quanti gli americani che Trump sarebbe stato eletto presidente, definendolo un “miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time, e sociopatico a tempo pieno”. In quella lettera, il regista americano, divenuto famoso per “Fahrenheit 9/11” e per “Bowling a Columbine”, metteva nero su bianco una certa idea del mondo di Hollywood riguardo al futuro presidente degli Stati Uniti. E forse proprio da lì bisogna partire per comprendere la lite via Twitter che in queste ore sta scatenando l’interesse dei media nordamericani e internazionali, e che vede come protagonisti il presidente degli Stati Uniti e lo stesso regista.
Al centro dello scontro, lo spettacolo di Moore “The Terms of my Surrender”, che ha per protagonista proprio il governo del repubblicano, e che è andata in questi giorni in scena a Broadway. “Anche se non è per nulla presidenziale, devo segnalare che lo scadente spettacolo di Michael Moore a Broadway è stato una disfatta totale ed è stato costretto a chiudere”, ha scritto Trump su Twitter, con un metodo che ha decisamente poco di presidenziale e che dimostra come l’uso dei social network sia sempre fin troppo facile da parte del presidente Usa. Ed è un messaggio che lascia abbastanza perplessi anche perché è difficile ritenere un fiasco uno spettacolo con questi numeri: 12 settimane al Belasco Theater, 4,2 milioni di dollari di incassi, oltre 74mila persone ad assistere (premettendo che la capienza del teatro raggiunge circa le mille unità). E infatti prontamente è arrivata la risposta del regista, il quale non ha perso tempo per ribattere ironicamente al presidente Usa con un tweet decisamente perentorio: “Devi aver confuso il mio grande successo a Broadway con la tua presidenza, che è una disfatta totale e chiuderà davvero presto. Nessuna tristezza”. Da lì una cascata di tweet del regista contro il presidente Trump, ben 12, in cui non ha lesinato critiche molto pesanti all’amministrazione americana. “Oggi un soldato americano è stato ucciso e altri sei sono stati feriti nella nostra guerra senza fine in Afghanistan. Tu, il nostro presidente, non se sei consapevole”. In un altro, Moore ha domandato ironicamente al presidente se il suo comportamento non fosse dettato dall’intenzione di distrarre l’opinione pubblica dal Russiagate e dalla situazione catastrofica che vive Porto Rico. Infine, un tweet anche sull’uso del social network: “Dicono che Twitter ti distragga dalla presidenza. Ma Twitter è la tua presidenza! È tutto quel che sai fare. Perdente!”. “E ora, per questo fine settimana, sono l’ultima distrazione dai tuoi crimini”.
La guerra a colpi di tweet fra un presidente e un regista è un fatto certamente insolito. Non nell’era Trump, sia chiaro, che anzi ha dovuto subire una sorta di “censura” da parte dei consiglieri, preoccupati per l’eccessivo uso di Twitter da parte del presidente. In via generale, però, lascia abbastanza perplessi. Lascia perplessi perché l’uso incondizionato dei social network, del botta e risposta offensivo, conduce inevitabilmente a un’eliminazione di quella distanza quasi sacrale che deve esserci fra un’autorità e il popolo. Che non è una distanza in termini di superiorità, ma di elevazione rispetto a un vortice mediatico che può risucchiare la credibilità di un presidente o di un politico. Moore fa il suo gioco, attaccando il presidente. Trump dal canto suo si unisce a una rissa telematica che sì, gli rafforza il consenso del suo elettorato più convinto, ma rischia di inabissare la sua credibilità anche internazionale. The Donald questa volta ha commesso un errore grossolano, cioè cadere nella tentazione di avviare lui stesso una guerra mediatica con un regista così spregiudicato e attento come Moore, che non aspettava altro per screditare l’operato del presidente ed attaccarlo sotto ogni punto di vista. La guerra del sistema di Hollywood contro la sua presidenza è solo all’inizio e commettere certi errori può costar caro, nonostante sia evidente che le critiche dello star-system non facciano altro che portargli consensi in quella fascia di America che nulla ha da spartire con il mondo dei riflettori. Ma l’America profonda ha bisogno del suo presidente, non dei suoi tweet.